Yasser Arafat
Il prossimo settembre saranno passati 30 anni da quando sul prato della Casa Bianca un Yitzhak Rabin scuro in volto strinse la mano a un raggiante Yasser Arafat dopo la firma della Dichiarazione di Principi che segnava l’inizio di quella che moltissimi pensarono potesse essere una strada per arrivare alla pace nell’arco di cinque anni. Altri erano scettici, e ora hanno l’amara soddisfazione di poter dire: “L’avevo detto”.
Ci sarà tutto il tempo per discettare dell’anniversario degli Accordi di Oslo, ma personalmente sono rimasto colpito da una statistica che, in effetti, dice tutto quello che c’è da sapere su perché gli scettici avevano ragione. La madre e le due figlie assassinate nella loro auto lo scorso 7 aprile nella Valle del Giordano sono state la 1.658esima, 1.659esima e 1.660esima vittima israeliana dei terroristi palestinesi da quando venne firmato quell’accordo.
Occorre ricordare che il processo di pace di Oslo e ogni accordo successivo si basavano su una lettera ufficiale che Arafat scrisse a Rabin il 9 settembre 1993, nella quale prendeva quattro impegni:
La storica lettera indirizzata da Yasser Arafat a Yitzhak Rabin il 9 settembre 1993 (clicca per ingrandire)
L’Olp riconosce il diritto dello stato di Israele ad esistere in pace e sicurezza.
L’Olp accetta le risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
L’Olp si impegna per il processo di pace in Medio Oriente e per una risoluzione pacifica del conflitto fra le due parti e dichiara che tutte le questioni in sospeso relative allo status permanente saranno risolte mediante negoziati.
L’Olp considera la firma della Dichiarazione di Principi un evento storico che inaugura una nuova era di coesistenza pacifica, libera dalla violenza e da ogni altro atto che metta in pericolo la pace e la stabilità. Di conseguenza, l’Olp rinuncia all’uso del terrorismo e ad altri atti di violenza e si assumerà la responsabilità su tutti gli elementi e i membri dell’Olp al fine di garantire il loro impegno in questo senso, prevenire le violazioni e perseguire i trasgressori. [corsivo aggiunto]
Si può discutere se i palestinesi abbiano mai rispettato i primi tre impegni, ma non c’è nessuna discussione sul quarto. Quella era la promessa più importante ed è quella che è stata infranta quasi immediatamente (la Dichiarazione di Principi venne firmata il 13 settembre e Yigal Vaknin venne pugnalato a morte il 24 settembre). Nei successivi negoziati, i palestinesi hanno fatto più volte la stessa promessa come se fosse una nuova concessione che esigeva qualcosa in cambio da parte israeliana. E ogni volta quella promessa non valeva la carta su cui era stampata.
Ho sempre pensato che Rabin fosse determinato a sgomberare gran parte dei territori e che il processo di Oslo fosse essenzialmente un modo per farlo unilateralmente nonostante l’apparenza di intese e concessioni reciproche. Ecco perché continuò a negoziare nonostante il persistente terrorismo. Shimon Peres era determinato a continuare la politica di Rabin (attuò puntualmente il previsto ritiro dalle città palestinesi e nel gennaio 1996 si tennero le prime elezioni nell’Autorità Palestinese ndr), ma i suoi sforzi furono vanificati da un parossismo di violenze terroristiche che portarono all’elezione di Benjamin Netanyahu. Il quale, sebbene avesse fatto campagna contro Oslo, fu colui che, da primo ministro, sottoscrisse il Memorandum di Wye River che prevedeva il ritiro da un ulteriore 13% della Cisgiordania. Tre giorni dopo Danny Vargas, 29 anni, di Kiryat Arba, veniva colpito a morte a Hebron. Passano altri tre giorni e il sergente Alexey Neykov, 19 anni, viene ucciso da un terrorista che scaglia un’auto carica di esplosivo contro una jeep dell’esercito israeliano che scortava un autobus con a bordo 40 bambini delle scuole elementari dalla comunità ebraica di Kfar Darom, nella striscia di Gaza. L’incessante terrorismo permise a Netanyahu di opporsi alle pressioni degli Stati Uniti per l’attuazione dell’ulteriore ridispiegamento.
Poi venne Ehud Barak con la sua offerta ad Arafat di uno stato indipendente. Arafat lo respinse e fomentò la seconda intifada. Durante i cinque anni di quella guerra terroristica palestinese furono assassinati a sangue freddo altri 1.100 israeliani. Mentre si consumavano le stragi nei bar e sugli autobus, George W. Bush tentò di far risorgere il processo di pace, ma la Fase I della sua Road Map richiedeva che i palestinesi ponessero immediatamente fine a violenza, terrorismo e istigazione. Invece, uccisero altri 300 israeliani. Da allora il numero delle vittime è calato, ma non perché sia venuta meno lo zelo palestinese. Pochi giorni fa, il capo dei servizi di sicurezza ha dichiarato che dall’inizio dell’anno sono stati prevenuti più di 200 attacchi terroristici “significativi”, tra cui “circa 150 attacchi con armi da fuoco, 20 attentati con ordigni esplosivi e veicoli, attentati suicidi, sequestri di persona e altri”.
Eppure c’è chi ancora sostiene che fra gli esponenti palestinesi vi siano dei partner con cui Israele dovrebbe negoziare, e chi si sorprende che così poche persone in Israele ci credano. E c’è chi si dice sconcertato dal fatto che la questione palestinese sia stata a malapena menzionata nelle ultime cinque campagne elettorali israeliane. Ciò che è davvero sconcertante è che la reazione dell’amministrazione americana alle incessanti violenze palestinesi sia stata premiare i palestinesi rinnovando aiuti e incoraggiamenti. Vale la pena notare che il numero delle vittime israeliane da quando i palestinesi hanno promesso di non usare più la violenza equivale, in proporzione, a circa 57.000 americani: quasi quanti ne sono morti in Vietnam. Si immagini quale sarebbe la reazione degli Stati Uniti all’assassinio a sangue freddo di così tanti americani. Anzi, non occorre immaginarlo perché lo sappiamo. Dopo l’11 settembre hanno lanciato una guerra mondiale contro il terrorismo, combattuto guerre in Afghanistan e in Iraq e continuano ancora oggi a dare la caccia e uccidere membri dell’Isis e di Al-Qaeda.
Eppure gli israeliani vengono messi alla gogna per aver adottato contromisure per difendere i loro cittadini. Sì, accade che vi siano danni collaterali e che ne restino vittime palestinesi innocenti. E’ un tragico effetto non voluto (comunque estremamente più limitato e contenuto che nelle azioni anti-terrorismo americane) in una guerra combattuta contro terroristi che si fanno sistematicamente scudo dei civili. È anche il tragico prezzo che i palestinesi pagano per aver sistematicamente tradito l’impegno di Arafat lasciando mano libera ai terroristi e anzi continuando a glorificarli e premiarli.
Personalmente non ne posso più di sentir dire da rappresentanti americani e occidentali che Israele dovrebbe agire con moderazione, contenersi, ridurre l’escalation, smettere di costruire negli insediamenti, preservare lo status quo, e sentirli equiparare terrorismo e antiterrorismo fino alla nausea. Vorrei sentirli dire che 1.660 israeliani sono stati assassinati a sangue freddo da quando i palestinesi si sono impegnati a porre fine al terrorismo; e che non forniranno più un centesimo ai palestinesi, all’Unrwa o a qualsiasi altra organizzazione i cui fondi possono essere usati per aizzare e finanziare l’assassinio di israeliani, finché gli assassini e i loro famigliari continuano a ricevere vitalizi come ricompensa e incentivo per l’uccisione di ebrei; e che non ci sarà l’apertura di nessun consolato, non avranno sostegno alle Nazioni Unite e che i loro esponenti saranno trattati come sponsor del terrorismo. Ogni altra cosa che si dice sulla “questione palestinese” sono solo chiacchiere inutili. Per chi spera nella pace, che si tratti della soluzione a due stati o di qualunque altra formula, la storia ha dimostrato che non si otterrà mai nulla se non cessano definitivamente la violenza, il terrorismo e l’istigazione palestinese.
(Da: jns.org, 26.4.23)