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La Stampa Rassegna Stampa
29.04.2023 Israele non ha un altrove
Commento di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 29 aprile 2023
Pagina: 28
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Israele non ha un altrove»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/04/2023, a pag.28, con il titolo "Israele non ha un altrove" il commento di Elena Loewenthal.

A destra: Amos Oz

Cervo ti Strega, lunedì alla serata al femminile anche Elena Loewenthal -  Prima la Riviera
Elena Loewenthal

La cosa più straniante ma anche sorprendente della tradizione ebraica è la convivenza di due per così dire principi di fede apparentemente inconciliabili eppure necessari a vicenda. L'ebraismo è prima di tutto custodia e osservanza di una legge dettata da Dio, e pertanto inappellabile. Perfetta in quanto sovrumana, teoricamente indiscutibile. Eppure tutta la storia d'Israele è un inesauribile concatenarsi di parole in cui nessuno, né Dio né l'uomo, ha il diritto di mettere un punto alla fine della frase. Il discorso del mondo resta aperto. In questa apparente dicotomia fra la perfezione e l'inesauribile incompletezza della parola sta la chiave di lettura di tutta la tradizione ma anche di tutta la scrittura ebraica: il presupposto è che tutti abbiamo il dovere e la libertà di leggere il mondo, interpretarlo. Ma tutti sappiamo che la nostra non sarà l'ultima parola. Per questa ragione profonda il titolo dell'ultimo, breve libro di Amos Oz, Resta ancora tanto da dire. L'ultima lezione (Feltrinelli), risulta tanto significativo quanto struggente, per chi gli ha voluto bene – da vicino e da lontano. Si tratta di un breve saggio sul presente e sul passato, sul sionismo e il futuro d'Israele, che prende spunto dalla citazione di un testo di Yosef Haiim Brenner, autore fondativo della letteratura ebraica contemporanea, distante due generazioni da Oz.

Resta ancora tanto da dire. L'ultima lezione - Amos Oz - Libro -  Feltrinelli - Varia | IBS
La copertina (Feltrinelli ed.)

Ma quel "resta ancora tanto da dire" è proprio la cifra di Oz, il suo modo di lasciare il discorso aperto anche se i suoi lettori in tutto il mondo devono scendere a patti con la sua assenza, con il silenzio di chi non è più fra di noi, purtroppo. E che, se ci fosse, avrebbe ancora tanto da dire. Con queste pagine tanto brevi quanto preziose, Amos Oz spazza via quel punto a capo in fondo alla frase che è la negazione stessa della tradizione e dell'identità d'Israele, da sempre. Eppure, in questa lezione così colloquiale, così intima, tornano tutti i suoi grandi temi, quelli che ci hanno fatto pensare e sentire attraverso i romanzi e i saggi, dentro quegli occhi azzurri così profondi e trasparenti che incontrati una volta non li dimenticavi più. Comincia così: «Buonasera, che bella serata estiva. Ogni volta che rileggo le ultime righe di Da qui a lì di Brenner sento un tremito. Dunque non posso fare a meno di pormi la domanda: Davvero resta ancora tanto da dire?». Resta, eccome. E sono cose dolci ma anche scomode. Cose convincenti e cose spiazzanti, quelle che Amos Oz dice in queste pagine. Come sempre, senza un'ombra di retorica o compiacenza, andando dritto al sodo a costo talora di far sgranare gli occhi e scuotere il capo a chi lo ascolta, a chi legge. Oltre che da Brenner, il discorso qui prende le mosse da un tema a lui molto, molto caro. Quello del fanatismo, della sua anamnesi e dei modi possibili per defenestrarlo o quanto meno arginarlo. Molte delle cose che Oz dice qui, sono «parafrasi di quel piccolo libro, Cari fanatici, che a mie spese ho fatto distribuire in migliaia di copie nei Territori occupati. Che a mie spese ho fatto tradurre in russo e in arabo, e che in queste lingue so è largamente diffuso». Il fanatico, spiega Oz, è talmente generoso che vuole portare il prossimo dalla propria parte, cioè quella giusta, a tutti i costi. A costo di ucciderlo. Il fanatismo è alla radice di tanti mali del presente, sui fronti più diversi. Guarire il fanatismo è l'unica strada praticabile per risolvere il conflitto – quello fra israeliani e palestinesi, certo, che qui diventa il "modello" di ogni confronto fra oltranzismi opposti. «Non è auspicabile essere una minoranza, qui. Non lo è da nessuna parte, men che meno in Medio Oriente», e la soluzione sta per Oz nel prendere atto che c'è una ferita aperta, e che nessuna ferita «si cura con il bastone» anche se lui di principio non ha «nulla contro il bastone, di per sé. Non sono un pacifista», in senso stretto: il male assoluto sta non nella forza ma nella sopraffazione. In sostanza, Oz ha da dire che «se non ci saranno qui, e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo»: e non binazionale, e nemmeno ebraico. Per andare incontro al futuro, Israele deve restare se stesso: uno stato ebraico dove gli ebrei non siano una minoranza – perché altrimenti ritorna il tremendo e millenario circolo vizioso. Tutto questo e tanto altro può realizzarsi a patto di esercitare un'arte alla quale Oz teneva tantissimo e della quale tanto ci ha insegnato: quella del compromesso, che per lui non era sinonimo di debolezza ma di vita. Non c'è vita senza compromesso, e spesso senza compromesso c'è il contrario della vita. Fra le tante lezioni di Amos Oz, tanto nei suoi romanzi quanto nei suoi saggi, questa è forse la più preziosa, la più illuminante. Ed è sul filo di tali considerazioni intorno a fanatismo, conflitto, compromesso, che l'autore ci conduce dolcemente verso una conclusione che tale non è, riflettendo sul sionismo. Su che cosa è stato e che cosa più diventare, ma soprattutto dando conto al lettore della sua complessità, di quanto il movimento "risorgimentale" ebraico abbia saputo essere al tempo stesso radicale e ancestrale ma anche profondamente moderno. No, il sionismo non è fatto soltanto di quella cosa che lui chiama "ritornismo" – nostalgia delle origini, incapacità di rendersi conto che il mondo cambia -, perché tornare al passato è impossibile e ingiusto (il che vale non solo per l'ebraismo, ovviamente). «Ma allora che cos'è il sionismo? Non riesco a rispondervi se non con la consapevolezza che non abbiamo un altrove». Sono pagine di una lucidità e di una poesia indimenticabili, come tutte quelle di Amos Oz. Non possiamo e nemmeno vogliamo chiamarle testamento, perché Amos non era uomo da testamenti lapidari, e non a caso questo suo ultimo libro s'intitola "Resta ancora tanto da dire". La parola è il luogo della vera libertà, per chi scrive e per chi legge, raccoglie, ricorda. «L'uomo ha un finale aperto. Ignoro da dove arriverà la soluzione», ci dice: perché il futuro è il territorio dell'incertezza ma anche dell'attesa.

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