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Il Sudan in pericolo e la risposta di Israele Analisi di Ben Cohen
(traduzione di Yehudit Weisz)
I signori della guerra che hanno portato indicibili sofferenze al Sudan fin dal 1956, quando aveva ottenuto la sua indipendenza dal Regno Unito, difficilmente allentano la presa. Nell'ultima settimana, il terzo Paese più grande dell'Africa è sprofondato in un aspro conflitto civile tra due governanti rivali, causando centinaia di morti, migliaia di feriti e decine di migliaia di rifugiati che si sono riversati oltre i suoi confini negli Stati vicini. Le radici prossime dell'attuale crisi risiedono nel colpo di stato del 2019 che dopo mesi di proteste popolari contro il suo regime, aveva portato alla caduta della trentennale dittatura islamista di Omar al-Bashir. Un inquieto consiglio di transizione ha quindi preso il potere, sventando un colpo di stato militare nel settembre del 2021 prima che, il mese successivo, un altro portasse alle dimissioni del Primo Ministro Abdalla Hamdok e alla sua sostituzione con il capo dell'esercito sudanese, il tenente generale Abdel Fattah al-Burhan. Sotto al-Burhan, il Sudan è rimasto nominalmente impegnato in una transizione democratica, grazie ad un accordo del dicembre 2022 che indicava il 1° aprile di quest'anno quale termine ultimo per una risoluzione definitiva. L'accordo prevedeva l'impegno a inserire le Forze di Supporto Rapido (RSF), comandate dal Gen. Mohamed Hamdan Dagalo, nelle forze armate nazionali. Ma ciò non è accaduto dopo che Dagalo (meglio conosciuto con il suo nome di battaglia, “Hemedti”) ha dichiarato di voler rinviare il processo di 10 anni. Dal canto suo, al-Burhan non accetta un rinvio superiore ai due anni, dando così il via agli attuali brutali combattimenti. La disputa tra al-Burhan e Hemedti non è ideologica né religiosa. Come è accaduto per molte delle guerre in Africa, anche l'attuale conflitto in Sudan riguarda il controllo delle risorse, con l'RSF di Hemedti che custodisce gelosamente il suo controllo sulle lucrative miniere d'oro nella provincia del Darfur. Di conseguenza, non esiste un partner naturale per le democrazie occidentali in nessuno dei due leader; né esiste alcun progetto politico decente degno di sostegno internazionale. Inoltre, è difficile vedere come possa cristallizzarsi un consenso globale sul Sudan, almeno al di là dell'ovvia consapevolezza che ripiombare nuovamente in una guerra civile non sia nell'interesse di nessuno. Il mondo è più pericolosamente diviso ora che in qualsiasi altro momento dalla fine della Guerra Fredda, e sia la Russia che la Cina hanno perseguito a lungo obiettivi economici e strategici in Sudan, il che significa che è improbabile che possano collaborare con gli Stati Uniti o con altri Paesi occidentali, in particolare finché persisteranno la guerra in Ucraina e le tensioni su Taiwan.
Un fattore che rende insolito questo particolare conflitto in Sudan è che Israele, una volta considerato un nemico implacabile a Khartoum, è ora un attore, avendo firmato un accordo di normalizzazione con il governo post-Bashir nel 2020, come parte dei tanto decantati Accordi di Abramo raggiunti con una manciata di Stati arabi sotto l'egida degli Stati Uniti. Secondo un rapporto di Axios, il processo negoziato negli ultimi tre anni tra Israele e Sudan ha offerto agli israeliani una visione unica della mentalità sia di al-Burhan che di Hemedti e di ciò che può influenzarli. Secondo quanto riferito, Israele vuole che i combattimenti cessino immediatamente, temendo che la guerra possa far deragliare la formazione di un governo civile e quindi l'accordo di pace. Per il governo del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che deve affrontare disordini senza precedenti in patria e rinnovate critiche al trattamento riservato ai palestinesi all'estero, ogni Stato arabo che firma un accordo di pace con Gerusalemme deve essere percepito come una vendetta. Come membro veterano della Lega Araba il cui destino è strettamente allineato con il suo vicino egiziano a Nord, la firma del Sudan vale, come direbbe Hemedti, il suo peso in oro. Il problema è che le altre nazioni unite dagli Accordi di Abramo – vale a dire Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco – sono divise quando si tratta di stabilità interna. Nessuno di questi Stati è una democrazia e tutti possiedono pessimi precedenti in materia di diritti umani, sebbene alcuni siano più stabili di altri. Il Sudan è radicalmente instabile, avendo subito più colpi di stato dall'indipendenza rispetto a qualsiasi altro Paese in Africa. E oltre ad essere uno stato fallito, il Sudan è stato per gran parte della sua esistenza uno stato canaglia, fornendo una base per il defunto leader di Al-Qaeda Osama bin Laden nel 1993. Inoltre, nel caso di Israele, non tutte le forze politiche in Sudan sostengono l'accordo; quando il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha visitato Khartoum a febbraio, il Partito della Conferenza del popolo e il Blocco islamico, che comprende 10 diversi partiti islamici, ha rilasciato dichiarazioni avvertendo al-Burhan che non aveva alcun mandato per fare la pace con Israele. Per numerose ragioni, quindi, sarebbe sciocco presentare la pace tra Israele e Sudan - più precisamente, tra Israele e i litigiosi leader militari del Sudan - come permanente. Tuttavia, quando i leader israeliani parlano in modo lirico dei benefici della pace con il Sudan, sembra che stiano negando la realtà. Mentre si trovava a Khartoum, Cohen ha reso omaggio a uno "storico accordo di pace con un paese arabo e musulmano strategico", affermando che "l'accordo di pace tra Israele e Sudan promuoverà la stabilità regionale e contribuirà alla sicurezza nazionale dello Stato di Israele". Tali sentimenti sono mal riposti in un Paese in cui il potere viene ancora dalla canna di una pistola piuttosto che dalle urne. La questione in Sudan non è chi tra al-Burhan o Hemedti debba governare, ma se uno dei due possa essere considerato un leader legittimo. Tra gli abusi di al-Burhan c'è il massacro del giugno 2019 di manifestanti pacifici a Khartoum, con centinaia di assassinati, torturati e violentati, e segnalazioni di cadaveri gettati nel fiume Nilo. Da parte sua, Hemedti è emerso da uno dei paramilitari più mostruosi visti durante questo secolo: l'arabo Janjaweed che ha condotto un regno di terrore genocida nella regione del Darfur dal 2003 al 2020. Nozioni nobili come l'interesse nazionale o la riconciliazione nazionale sono completamente estranee a entrambi gli uomini, Israele può tentare di mediare una tregua tra i teppisti, ma anche se la raggiungesse, non durerà. La pace è possibile in Sudan solo se le cause di quasi 70 anni di instabilità vengono affrontate in modo significativo. Quando si tratta di costruzione della nazione, Israele ha una vasta esperienza. Ma al-Burhan e Hemedti ascolteranno gli estranei solo per il tempo che riterranno opportuno.
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate
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