Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 18/04/2023, a pag. 25, con il titolo "Non ho paura, giusto lottare per la libertà questa generazione cambierà l'Iran", l'intervista di Annalisa Cuzzocrea.
Annalisa Cuzzocrea
Asghar Farhadi
Asghar Farhadi non ha paura. Il regista che più di tutti, insieme a Jafar Panahi, ha saputo raccontare l'Iran di oggi, non teme per sé. Per quel che potrebbe succedergli, da quando ha deciso di stare senza esitazione dalla parte di chi per le strade grida "Donna, vita, libertà", osando mostrarsi senza velo, cantare, ballare perfino. Asghar Farhadi avrebbe vergogna - e la vergogna è uno dei sentimenti che il suo cinema ha saputo raccontare meglio, da About Elly, a Una separazione, a Il Cliente - se a fermare la sua voce fossero i timori per quel che potrebbe succedere a lui e alla sua famiglia. Perché quelle ragazze e quei ragazzi che scendono in strada tutti i giorni sfidando un potere cieco che vuole imprigionarli, hanno insegnato a lui e alla sua generazione cos'è che bisogna avere il coraggio di volere. La prima cosa, è la libertà. Ossigeno per qualsiasi artista, che alla lunga – dentro a un regime – non può che soffocare. Il regista iraniano, due volte premio Oscar, osannato da critica e pubblico, è in Europa per scrivere una sceneggiatura – come quando ci rimase tre anni a girare Il passato, in Francia - ma la sua casa resta Teheran. È a Torino in questi giorni, incantato dal Museo del cinema e dalla sua bellezza, ed è qui che la redazione de La Stampa ha potuto parlare con lui di quel che ancora sta accadendo, in Iran. Del futuro della rivoluzione, delle sue ragioni e del suo destino.
La morte di Mahsa Amini risale allo scorso 16 settembre. Da allora, per settimane, i giovani iraniani sono scesi in piazza a protestare. Il risultato sono stati migliaia di arresti, centinaia di uccisioni, condanne a morte, ma la situazione appare come cristallizzata. Il potere, ancora saldo in mano agli ayatollah. Che speranze ci sono per questa rivoluzione? «La cosa che posso dire con certezza è che è un movimento che non può essere sconfitto, non torna più indietro. È votato solo ad andare avanti. Ovviamente nessuno può prevedere quando riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi, ma non c'è alcun dubbio che li raggiungerà. Non conosciamo i tempi, non sappiamo con precisione quali ancora saranno gli ostacoli, ma vedete, un movimento che si basa sulle parole "donna, vita, libertà", è destinato a essere appoggiato da qualsiasi persona di buon senso. È nato da una generazione che ha in mano il futuro e ha l'appoggio di tutti».
Fino a poco tempo fa sembrava che proprio per via di questa rivolta così forte un cambio di regime fosse imminente, ma non è accaduto. Come mai? «In apparenza può sembrare che l'onda si sia fermata, ma le persone continuano su quella strada. Era sbagliata la previsione sui temi. Ci sono cambiamenti, passaggi storici, che non possono certo avvenire dal giorno alla notte. Ma questo è un grande movimento generato da persone che per la prima volta vogliono decidere da sole cosa essere, come essere, tanto nelle piccole cose che in quelle grandi. Vogliono prendere in mano la propria vita e questo non può che avere un risultato».
Come si concilia il desiderio di appoggiare questa lotta per la libertà con i timori per le persone care, per chi le è vicino e in questo momento è in Iran. Come si gestisce la paura? «Prima di tutto devo ripetere un concetto legato alla libertà che mi è molto caro, perché a lungo nel mio Paese è andato di moda dire che un artista cresce con le limitazioni, perché aguzzano l'ingegno, risvegliano la creatività. Se questo può essere vero nel breve periodo, è assolutamente falso man mano che la vita va avanti. L'arte ha bisogno della libertà per realizzarsi a pieno. La sua mancanza uccide la creatività. Quanto alla paura, anch'io come cineasta ho il problema che possa succedermi qualcosa com'è accaduto ai miei colleghi, ad alcuni miei collaboratori, ma come faccio a temere per me quando vedo ragazzi di 14 anni, di 18 anni, che sprezzanti del pericolo mettono in gioco la propria vita per cambiare le cose? Davanti al loro coraggio, pensare a cosa potrebbe succedere a me è ridicolo. È un mio dovere umano appoggiare e sostenere questo movimento».
Lei si rifiutò di andare a Los Angeles a ritirare l'Oscar per Il cliente per via di una legge che bandiva gli iraniani dal suolo americano. Avrebbe potuto ottenere un'eccezione, non l'ha voluta, e ha mandato un messaggio in cui invitava gli Stati Uniti - e tutto l'Occidente - a smettere di dividere il mondo tra "noi e loro", perché non serve a nessuno. Non aiuta nessuno. La pensa ancora così? C'è qualcosa che vorrebbe aggiungere a quella riflessione? «Penso che negli anni dividere il mondo tra "noi e gli altri", considerandoci noi migliori degli altri, abbia portato solo malessere e guerre. Non credo che i popoli ragionino così. Anche quando ci sono differenze culturali, formali, profonde, dal punto di vista dei sentimenti, delle passioni, siamo molto simili. C'è molta più comunanza tra le persone che divisioni. E questa comunanza bisogna continuare ad alimentarla e mantenerla». Quale pensa possa essere il ruolo della diaspora iraniana in questa "rivoluzione". Si tratta di elementi molto diversi tra loro, dai nostalgici dello Shah ai mujaeddin del popolo, ascoltati in Italia ma non in patria.
Quale contributo può arrivare da fuori senza aggiungere conflitti al conflitto? «Questo movimento, come provavo a dire prima, ha una matrice strettamente umana. Qualunque gruppo di qualsiasi visione che possa aiutare questo orientamento umano ad andare avanti, è utile. Chiunque abbia a cuore la dignità umana dovrebbe appoggiarlo».
Cosa pensa della partecipazione degli uomini a questa rivolta? Sembra stiano dalla parte delle loro compagne, madri, sorelle. E dove punterebbe la sua telecamera, dovendo fare un film dopo la caduta del regime? «Toccate un punto centrale perché ho notato, i primi tempi, che da fuori sembrava che gli uomini non esistessero. O addirittura che la rivolta delle donne fosse contro gl uomini. Quando ero a Teheran e andavo a girare con la telecamera riprendendo le manifestazioni in vari punti delle città, vedevo i ragazzi e le ragazze camminare insieme. O se le donne erano avanti, gli uomini erano subito dietro di loro, pronti a proteggerle. Non c'era una separazione. È un fatto generazionale. I principi di questa rivolta vanno nella direzione di unire, non di dividere. Non so cosa filmerò, quando questa storia finirà, perché è difficile capire quando e come avverrà. Ma so che devo e voglio avere più attenzione nei confronti di questa nuova generazione: questi ragazzi hanno l'età delle mie figlie e a differenza della generazione che li ha preceduti hanno molta consapevolezza di quello che vogliono. Noi sapevamo cosa non volevamo, ma non avevamo un'idea di futuro. Loro sanno bene cosa vogliono nel loro futuro. A partire dalla libertà».
Si è detto che la rivoluzione nasca nelle università, che l'alta scolarizzazione delle iraniane le abbia portate a ribellarsi. Teme un ritorno indietro? «Viviamo in un'epoca in cui è ormai impossibile che il sapere non possa essere trasmesso. Ci possono essere degli ostacoli, si possono rallentare alcuni passaggi, ma è difficile che ci sia un libro da una parte del mondo che merita di essere letto, e non arrivi dall'altra parte. Tutto questo crea luce. Illumina la strada».
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