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La Repubblica Rassegna Stampa
18.04.2023 750 eroi ebrei nel ghetto di Varsavia senza l'aiuto delle democrazie
Analisi di Marcello Pezzetti

Testata: La Repubblica
Data: 18 aprile 2023
Pagina: 37
Autore: Marcello Pezzetti
Titolo: «I 750 eroi ebrei nel ghetto di Varsavia»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 18/04/2023, a pag.37, con il titolo "I 750 eroi ebrei nel ghetto di Varsavia" 'analisi di Marcello Pezzetti.

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Marcello Pezzetti

Rivolta del ghetto di Varsavia - Wikipedia

Il 19 aprile 1943, vigilia di Pesach, le forze naziste sferrano l’attacco finale contro gli ultimi ebrei rimasti nel ghetto di Varsavia con i loro gruppi familiari. Il ghetto è vuoto, le strade deserte; sopra un tetto sventolano due bandiere: una “ebraica”, bianca e blu, e l’altra della Polonia, bianca e rossa. Sono 2.054 soldati e 36 ufficiali (un reparto delle SS, reparti di polizia e della Wehrmacht, coadiuvati da oltre 300 “ausiliari”), dotati di 1.174 fucili, 217 mitragliatrici di vario tipo, lanciafiamme, tre carri armati, un cannone, contro 750 “combattenti” disperati, senza alcuna preparazione militare. La battaglia dura poco più di mezz’ora, poi, contro ogni previsione, i nazisti si devono ritirare, lasciando per terra morti e feriti (18 morti, secondo il rapporto del Generale Stroop). Per i nazisti la situazione è inconcepibile: alla loro furia persecutoria, che fino ad ora non ha trovato ostacoli, gli ebrei oppongono una coraggiosa, disperata, quasi incosciente resistenza collettiva. È una realtà che sgretola l’immagine stereotipata che i persecutori hanno delle vittime, che dovrebbero «lasciarsi portare al macello come pecore». Invadendo la Polonia, Hitler aveva pensato di effettuare una pulizia etnica su larga scala per creare uno “spazio vitale” germanico nell’Est dell’Europa; gli ebrei, conseguentemente, avrebbero dovuto scomparire definitivamente dalle zone di influenza tedesca. A Varsavia, gli oltre 450 mila ebrei prigionieri dipendevano dal mondo esterno, soprattutto per la fornitura dei prodotti alimentari, la cui riduzione progressiva li aveva trasformati in trappole mortali. La fame era diventata il fattore predominante. Queste condizioni alimentari catastrofiche, unite al sovraffollamento, avevano provocato l’insorgere e il diffondersi rapidissimo di malattie epidemiche letali, quali la tubercolosi acuta, la dissenteria, il tifo intestinale e petecchiale, che avevano colpito la parte più debole della popolazione: i malati, i vecchi e i bambini. Nell’Europa occupata, in tre anni i nazisti avevano istituito più di 1.100 ghetti, dove sarebbero morti oltre 600 mila persone. Due terzi delle vittime dell’intera Shoah avrebbe vissuto per un periodo più o meno lungo in un ghetto. Ma nella primavera del 1942 era iniziata la liquidazione dei ghetti con l’uccisione dei suoi prigionieri. Il 22 luglio del 1942, proprio a Varsavia era stata scatenata la più grande azione omicida nazista: la deportazione di oltre 250 mila esseri umani nel centro di sterminio di Treblinka in 52 giorni. Fu allora che parte degli ebrei rimasti, prevalentemente i più giovani, avevano formato un’organizzazione ebraica combattente, cercando innanzitutto di procurarsi armi dai resistenti della parte “ariana” della città. Nonostante l’aiuto ricevuto fosse stato estremamente modesto, nel gennaio dell’anno successivo, quando le forze naziste avevano deciso di effettuare gli ultimi rastrellamenti, tutta la popolazione ebraica ancora presente in ghetto si era unita ai giovani combattenti, riuscendo a respingere il tentativo omicida. Ora q uesti ebrei, isolati e abbandonati, stavano preparando l’insurrezione del ghetto. E il 19 aprile questo avviene: gli ebrei combattono eroicamente senza ricevere aiuti, né direttive, da nessuno, sprovvisti di un ruolo nell’ambito della resistenza “classica”, ma soprattutto senza il sostegno della popolazione locale, che nei loro confronti mostra una diffusa indifferenza. Ma il risultato di questa lotta è scontato: si tratta di un pugno di eroi che si oppone all’esercito più potente del mondo con armi totalmente inadeguate. I combattenti, tuttavia, resistono incredibilmente per diverse settimane; i persecutori sono costretti a utilizzare il fuoco e i gas asfissianti per stanare la gente che si nasconde nei rifugi e, negli ultimi giorni, le bombe per farla uscire dalle fogne. Circa 13 mila persone sono uccise, mentre oltre 56 mila vengono catturate, quindi deportate a Treblinka e nei campi del distretto di Lublino. L’8 maggio il generale Stroop conquista il rifugio dove sono asserragliati i comandanti dell’organizzazione ebraica combattente, gran parte dei quali, piuttosto che arrendersi, si suicida. Il 16 maggio 1943, di sera, la Groß-Aktion si conclude con la distruzione della Grande Sinagoga in via T?omackie. Il risultato della grande rivolta ebraica del ghetto di Varsavia, dunque, militarmente non ha alcun valore, ma provoca un cambiamento epocale della percezione che la società europea ha degli ebrei e, insieme, che gli stessi ebrei hanno di sé: pone fine alla leggenda della “passività ebraica”. Sulle rovine del ghetto, completamente raso al suolo,per rimuovere le macerie e recuperare del materiale ancora utilizzabile, nell’estate successiva i nazisti edificano un campo di concentramento (KL), inizialmente indipendente, poi trasformato in sottocampo di Majdanek. Nel campo, circondato da un alto muro e contenente 21 baracche, vengono deportati prevalentemente ebrei già detenuti in altri campi. Molti provengono da Auschwitz- Birkenau. Da qui, alla fine di novembre del 1943, giunge anche un gruppo di 42 italiani arrestati a Roma il 16 ottobre precedente. Tra essi, Arminio Wachsberger, impiegato come “interprete” del gruppo, ruolo che gli era stato assegnato fin dall’arresto a Roma, e Lello Di Segni. Essi diventano dei testimoni di primaria importanza della storia di questo terribile campo, ma insieme della grande rivolta del ghetto: «Il cosiddetto campo di concentramento di Varsavia era il ghetto bombardato » afferma Lello, e Arminio: «Il campo era dentro nel recinto del muro di Varsavia. Hanno costruito delle baracche di legno e noi eravamo dentro in queste baracche. Eravamo circa seimila prigionieri». I prigionieri del campo devono demolire le rovine del ghetto, rimuovere le macerie e recuperare il materiale edile ancora utilizzabile, lavoro durissimo. Da subito questi scoprono la tragica realtà della vita e della disperata ribellione di quelle vittime: «Facevamo pulizie dei palazzi, così abbiamo avuto occasione de trovàdelle posate, cucchiaini, cortelli ,di gente che c’aveva abitato. Erano stati quelli che si sono racchiusi tra loro e hanno fatto resistenza». (Lello). «Sulle strade si trovavano ancora dei cadaveri mummificati di donne con i figli in braccio, che si erano gettate dai tetti delle case incendiate dalle SS durante la rivolta. Per terra, bruciacchiati, trovai dei rotoli in pergamena della Torah, libri di preghiera e taletoth. Il cuore mi si stringeva nel vedere con quale barbarie i tedeschi avevano sterminato i nostri fratelli di fede». (Arminio). Molti detenuti italiani vengono poi inseriti in un comando speciale col compito di cercare, soprattutto nel sottosuolo, valuta estera e oggetti di valore appartenuti ai prigionieri del ghetto. Nelle fogne si nascondono ancora alcuni di loro miracolosamente sopravvissuti, e un giorno gli ebrei italiani ne incontrano uno: «Aveva una barba lunghissima, era accovacciato accanto ai cadaveri della moglie e della figlia, che ci mostrò ». Decidono di aiutarlo, ma il giorno dopo il poveretto viene trovato da una guardia: «Lo impiccarono davanti a noi» (Arminio). Giorno dopo giorno, però, rimanere in vita in questo luogo diventa sempre più difficile. I prigionieri sono costretti a subire violenze sempre peggiori da parte del personale del campo — SS, Volksdeutsche (tedeschi “etnici”) ed ex prigionieri di guerra ucraini collaborazionisti, oltretutto particolarmente corrotti. Le esecuzioni sono più frequenti; le condizioni sanitarie diventano insostenibili: molti non ce la fanno, come Lillo Pontecorvo; Carlo Curiel (1895) e suo figlio Giorgio (1926); Leonello Della Seta (1891), uomo di grande cultura, e suo figlio Giancarlo (1927); gli ingegneri Bruno Forti (1895) e Carlo Pontecorvo (1902), il primo in Italia ad aver utilizzato il microscopio elettronico; il professor Raffaello Menasci (1896) e il dottor Ascarelli. Nella primavera del 1944, è già morto oltre il 70% dei prigionieri. Gli ebrei italiani ancora in vita sono solo tre: Arminio Wachsberger, Lello Di Segni e Isacco Sermoneta.

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