Bernard-Henri Lévy
Dunque, la guerra?
La nave di Teseo
Incontri, dialoghi, testimonianze e sensazioni. In altre parole, esperienze. Quelle vissute in Ucraina dal filosofo e scrittore francese Bernard-Henri Lévy e raccolte in Dunque, la guerra! (La nave di Teseo).
Cosa c'è in quel "Dunque" del titolo? «Riguarda la disperazione del conflitto in corso. Poi rappresenta il fatto che la guerra era attesa. Erano almeno dieci anni che definivo Putin come un pericolo per il resto d'Europa. Ma c'è anche un terzo elemento: il fatto che né l'Ucraina né i suoi alleati europei hanno voluto questa situazione. La guerra ci è stata imposta».
Nel libro dedica ampio spazio alla rivolta di Maidan del 2014. «Credo di aver capito immediatamente quello che stava succedendo in quegli istanti. I due discorsi che ho pronunciato all'epoca erano rivolti alla popolazione ucraina riunita sulla piazza, ma anche a tutti gli europei: c'era un pericolo per il Paese e per tutto il Vecchio continente e quel pericolo si chiamava Vladimir Putin».
Bernard-Henri Lévy
Nei giorni scorsi lei è uscito nelle sale francesi con Slava Ukraini, il suo ultimo film girato al fronte. «In una certa maniera è il seguito del libro. È una sorta di diario sul campo».
Qual è lo stato d'animo degli ucraini? «C'è molta disperazione, ma nella popolazione domina soprattutto un sentimento di rabbia fredda. Provano rabbia per la mostruosità di questa guerra e per i crimini contro l'umanità che vengono commessi, ma riescono a controllarla perché sanno di non dover commettere atti che potrebbero sembrare gesti di vendetta nei confronti dei russi».
Nel suo libro racconta anche i colloqui avuti con Zelensky. «Ci siamo visti la prima volta prima della sua elezione. All'epoca tutti lo prendevano per un Beppe Grillo, ma al termine del nostro colloquio capii che avevamo a che fare con un Ronald Reagan. Lo incontrai una seconda volta due anni prima dell'aggressione della Russia all'Ucraina e lì vidi che era diventato un capo di guerra. Ero rientrato da un reportage nel Donbass e gli avevo portato alcune foto realizzate dal mio fotografo. Mi resi contro che conosceva nome per nome ogni città in cui ero passato e ogni comandante che appariva negli scatti. Poi ci siamo incontrati altre due volte. Durante la guerra mi è saltato agli occhio il fatto che quest'uomo è diventato un eroe europeo, un Churchill ucraino».
Come si spiega il fatto che in Paesi come l'Italia buona parte dell'opinione pubblica è contraria all'invio di armi a Kiev? «Forse perché non gli è stato spiegato come funziona una guerra e come la si ferma. La vera domanda oggi riguarda il modo con il quale si può bloccare il conflitto in corso. E la risposta è la seguente: chi l'ha voluta deve capire che non può vincere e che invece sta perdendo. Solamente a quel punto si fermerà. Non ci sono altri mezzi per due motivi. Il primo è che la parola di Putin non vale nulla e un eventuale accordo con lui non avrebbe nessun valore. In secondo luogo, lo stesso presidente russo ha detto in tutte le salse che il suo vero obiettivo è l'annientamento dell'Ucraina come entità politica. Cosa c'è da negoziare? Putin deve essere battuto nel senso militare del termine. Deve capitolare. O abbiamo accettato il fatto che "tutte le guerre" terminano con una "negoziazione"? Non è vero per le guerre totali. Quando c'è una guerra totale c'è solo una soluzione: la resa, la capitolazione senza condizioni di colui che ne è il responsabile».
Nel libro c'è anche un capitolo dedicato all'Italia. Questo esecutivo, però, ha più volte espresso appoggio a Kiev. «Sono convinto che non hanno cambiato realmente idea. L'abbiamo visto anche con le recenti uscite di Berlusconi. Del resto, sono proprio queste le ultime speranze di Putin: avere in Europa un certo numero di idioti utili. Lo sono Berlusconi e Salvini, ma anche i leader dell'estrema destra francese. Il leader del Cremlino prova ad utilizzarli, magari ha anche dei mezzi per fare pressione su di loro, che rappresentano la sua ultima arma. In Italia questo aspetto è ancora più problematico di quanto non lo sia in Francia perché stiamo parlando di figure che sono al potere».
La Stampa