Un atto d'accusa contro l'Iran Commento di Caterina Soffici
Testata: La Stampa Data: 03 aprile 2023 Pagina: 16 Autore: Caterina Soffici Titolo: «Nel nome di Mahsa»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/04/2023, a pag.16 con il titolo "Nel nome di Mahsa" l'analisi di Caterina Soffici.
Mahsa Amini
Due mani alzate, due mani che si incontrano e si stringono in un gesto potente. Se guardate solo la parte superiore di questa foto, sembra di vittoria. Abbassate ora lo sguardo. Le mani si uniscono su una tomba, e la foto cambia subito di significato: sono due mani che si sostengono, che paiono cercare forza e conforto stringendosi l'una all'altra. La lapide è quella di Mahsa Amini, la ragazza di 22 anni di origine curda arrestata il 16 settembre scorso dalla polizia morale iraniana per non aver portato correttamente il velo e morta durante la custodia, per le botte. È stata la vittima numero zero della protesta che ha infiammato l'Iran. Da lì è partita la nuova rivoluzione. Le due mani di questa foto appartengono a due padri. Uno è il padre di Mahsa e l'altro il padre di Mohammad Mehdi Karami, anche lui 22 anni, arrestato a dicembre scorso mentre protestava a Karaj, vicino a Teheran. Arrestato e condannato a morte dopo un processo farsa durato una settimana. Questi due uomini sono sopravvissuti ai loro figli, il dolore indicibile di rimanere in vita quando loro non ci sono più. Un dolore reso ancora più forte dall'ingiustizia. Le due giovani vite di questi 22enni non sono state strappate alla famiglia dal caso, dalla sfortuna di un incidente. Sono due vite sottratte dal potere assassino, da uomini che hanno voluto imporre la propria violenta volontà per stroncare il desiderio di libertà dei due ragazzi. Perciò questo abbraccio simbolico è a modo suo vincente, in quel gesto con il braccio alzato. Come a dire: voi ce li avete strappati, ma il loro messaggio rimane, la loro morte non sarà invano, noi lotteremo perché il mondo sappia. E infatti la foto ha fatto il giro dei social ed è arrivata fino a noi, sugli schermi dei nostri telefonini. Via video era arrivato anche l'appello del padre di Mehdi Mohammad Karami, che aveva raccontato di una telefonata dal cercare del figlio. «Papà, hanno emesso il verdetto, ci hanno condannato a morte. Non dirlo alla mamma» aveva implorato il ragazzo in lacrime. I genitori avevano provato a chiedere la grazia con un video sui social media: «Mi chiamo Mashallah Karami. Sono un venditore ambulante. Mio figlio, Mehdi Mohammad Karami è un campione di karate, ha vinto molti premi ed è stato membro della nazionale. Chiedo con rispetto e gentilezza alle autorità giudiziarie, le imploro, di togliere la pena di morte a mio figlio». L'uomo è seduto a gambe incrociate, non guarda mai in telecamera, gli occhi quasi chiusi, abbassati. La moglie è accanto a lui, una figura immobile, pare di pietra, piccola e fragile, le mani in grembo, anche lei con gli occhi bassi. Quando finisce di parlare il marito la donna ripete la stessa formula, come un automa, probabilmente conscia che quella pantomima non servirà a niente. Non servirà a salvare il figlio, ma serve almeno a far capire a noi, da questa parte del mondo, cosa provano i genitori di un ragazzo di 22 anni condannato a morte per aver manifestato per la libertà. Mahsa Amini è morta mentre era nelle mani della polizia morale, per le percosse ricevute. È uscita cadavere dall'ospedale dove era stata ricoverata. Le autorità hanno sempre negato qualsiasi responsabilità, hanno detto che il decesso è stata causato da un attacco di cuore, per una malformazione cardiaca congenita. La famiglia di Mahsa ha chiesto che i leader iraniani siano processati da un tribunale internazionale e condannati per crimini contro l'umanità. Anche la famiglia Karami non ha avuto giustizia. Il processo è durato meno di una settimana e le numerose organizzazioni internazionali per i diritti umani che monitorano quanto succede in Iran lo hanno definito «non equo». Mashallah Karami ha raccontato che Mohammadhossein Aghassi, l'avvocato indicato dalla famiglia è stato rifiutato dalla corte e non ha potuto difendere il ragazzo. Il legale d'ufficio incaricato dal tribunale non ha mai neppure risposto alle sue telefonate. Il ventiduenne aveva iniziato uno sciopero della fame di protesta in carcere e alla famiglia non è stato permesso di vedere il figlio in carcere prima della morte.
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