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Le loro proteste, non le nostre: la reazione del Movimento di Solidarietà Palestinese allo sconvolgimento politico di Israele Analisi di Ben Cohen
(traduzione di Yehudit Weisz)
Nelle ultime due settimane, lo sconvolgimento politico in Israele ha generato un interesse globale senza precedenti nei confronti della governance interna dello Stato ebraico. Il mondo ha rapidamente appreso che in Israele manca una costituzione scritta, e inoltre, che il suo sistema elettorale trasforma i piccoli partiti in artefici del potere, sullo sfondo di rabbiose manifestazioni che respingono le riforme giudiziarie proposte dal governo del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Le proteste sono state generalmente descritte come “storiche” e “rivoluzionarie”, con l’annesso avvertimento che quanto prima la crisi politica sarebbe diventata una crisi esistenziale. Dall'Egitto all'Ucraina, al Brasile, agli altri 129 Paesi che, secondo il Carnegie Endowment for International Peace, hanno vissuto “proteste significative” dal 2017, la manifestazione della “forza popolare” di fronte a governi autoritari e spesso corrotti, cattura invariabilmente l'attenzione dei media di tutto il mondo. In termini puramente visivi, gli eventi possono essere coinvolgenti. Centinaia di migliaia di manifestanti che si ammassano nelle pubbliche piazze, cori incalzanti che risuonano dalla folla e colonne di agenti di polizia in tenuta antisommossa danno un senso di evento storico. Le manifestazioni nelle città e nelle cittadine di Israele hanno fatto eco a un attivismo simile in altre parti del mondo, comunicando ai profani, mentre osservano il mare di bandiere di Israele portate dai manifestanti, il messaggio che quelli che sono scesi in piazza amano il loro Paese ma detestano il loro governo.
Tuttavia, non tutti sono rimasti commossi dalle proteste. Tra i palestinesi e le loro varie organizzazioni di solidarietà in tutto il mondo, la risposta ha oscillato tra una astiosa indifferenza ad una aperta ostilità. A prima vista, questa reazione lascia perplessi. Ci si potrebbe aspettare che gli avversari di Israele fossero interessati alla sua crisi politica, se non altro per ottenere una comprensione più chiara di come il nemico potrebbe crollare. Invece salvo una manciata di eccezioni, le legioni di scrittori e attivisti che dedicano le loro giornate a promuovere la causa nazionale palestinese, si sono comportate come se il movimento di protesta israeliano fosse un'irrilevanza che distrae gli occhi dei media dal ruolo di Israele come "occupante" delle terre palestinesi. Questo perché, riflettendo più approfonditamente, la visione del nazionalismo palestinese mette in guardia da un'eccessiva vicinanza alle speranze, alle divisioni e alle ambizioni tra gli israeliani, preferendo porre l’accento sulla tesi secondo cui Israele è uno Stato coloniale nato con il peccato originale. Dopotutto, lo stesso atto di protesta può umanizzare una società, trasmettendo agli estranei il senso delle complessità che si celano al di là delle rigidità ideologiche. Attraverso le proteste, infatti, è stato ricordato al mondo esterno che ci sono israeliani che sostengono Netanyahu e altri che gli si oppongono, molti con ogni fibra del loro essere; che ci sono israeliani che sostengono il compromesso territoriale con i palestinesi così come coloro che desiderano estendere la sovranità israeliana su ogni parte del territorio, dal Mediterraneo al fiume Giordano; che ci sono israeliani che sono devotamente religiosi e quelli che sono assolutamente laici; che l'ebraico può essere una lingua di protesta così come una lingua di “occupazione”; e che, in comune con altre società democratiche, queste profonde divisioni sociali e politiche in una società libera sono un inevitabile sottoprodotto della vita.
“L'attuale movimento di protesta in Israele non è un movimento per trasformare la politica israeliana. Non è nemmeno un movimento per la democrazia”, ha scritto Sai Englert, un accademico olandese specializzato in questioni mediorientali, sulla rivista online Middle East Eye, uno dei pochi articoli sulle proteste, ritenuti meritevoli di essere pubblicati in una testata pro-palestinese. “Esso è un movimento che lotta per mantenere lo status quo israeliano: una società costruita su terra rubata e sulla continua emarginazione dei palestinesi, che approva ad occhi chiusi il suo dominio coloniale attraverso un sistema legale che solo lei stessa riconosce”, ha continuato. Per il giornalista palestinese residente negli Stati Uniti Ramzy Baroud, che scrive sul Palestine Chronicle , l'aspetto più significativo delle proteste è stato semplicemente che “Netanyahu e i suoi compagni estremisti sembrano determinati a danneggiare le relazioni di Israele con l'alleato che fornisce allo stato di occupazione almeno 3,8 miliardi di dollari in aiuti militari ogni anno (sottolineatura nell'originale).” Per il sostenitore del BDS Ali Abunimah, che scrive su Electronic Intifada, tutto ciò che conta fondamentalmente è che “nessun sionista può... davvero non essere d'accordo" con l'opinione del Ministro delle Finanze israeliano Betzalel Smotrich secondo cui i palestinesi sono un "popolo inventato" perché tale affermazione è stata, insiste, un segno distintivo della fede e della pratica sionista da parte degli ebrei fin dalla nascita del movimento nazionale.
Le centinaia di migliaia di israeliani che si oppongono a Smotrich mentre si identificano come sionisti e agitano con orgoglio la loro bandiera nazionale sono, secondo questo tipo di analisi, solo un esempio di malafede a livello di massa. Prima di ogni altra cosa, sostiene la loro argomentazione, gli israeliani sono coloni-colonialisti uniti da una determinazione collettiva di escludere gli originari abitanti arabi palestinesi del Paese. Le loro proteste, quindi, non potranno mai essere le nostre proteste.
Ecco perché, anche al culmine delle proteste, molti di coloro non israeliani che si opponevano visceralmente a Netanyahu erano comunque ansiosi che l'Iran, Hezbollah, Hamas o un nemico simile cercassero un vantaggio militare attraverso la crisi politica di Israele. Quando la Knesset si riunirà di nuovo il mese prossimo e riprenderà questo febbrile conflitto intra-sionista, questa è una realtà destinata a rimanere invariata.
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate
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