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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
27.04.2003 Caritas si, ma solo a chi va bene a noi
I benefattori cristiani nel mondo palestinese

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 27 aprile 2003
Pagina: 26
Autore: Alberto Chiara
Titolo: «La Caritas porta la pace fa gli ulivi»
Famiglia Cristiana non demorde, tante che non si capisce più bene chi stia per tagliare il traguardo del migliore odio antiisraeliano. Se il Manifesto,Liberazione, Linea o proprio Famiglia Cristiana.
I progetti per aiutare le famiglie che vivono in povertà.

Solo quelle palestinesi.


Un centro sanitario vicino a Ramallah.


Nessun centro vicino a Gerusalemme.


Nuove case per frenare l’esodo dei cristiani.


Se ne vanno perché sono senza casa o per i soprusi dei loro "amici" mussulmani?

Riportiamo alcuni stralci dell’articolo nel quale emerge ancora una volta la volontà del mondo cattolico di porsi al servizio dei palestinesi di considerare esclusivamente le loro sofferenze, i loro disagi, la loro disoccupazione.

Ma in Israele ci sono due popoli: israeliani e palestinesi.

Perchè la Chiesa e tutto il suo establishment si ricorda degli israeliani solo per accusarli di "prepotenze" e di "ingiustizie" mai per tendere loro una mano che, invece, con tanta facilità stende verso i palestinesi?


Monsignor Vittorio Nozza e Paolo Beccegato, rispettivamente direttore e responsabile dell’area internazionale della Caritas italiana, sono reduci da una missione volta a perfezionare in loco, con la Caritas di Gerusalemme, una serie di progetti.

D’intesa con la Caritas di Gerusalemme, abbiamo deciso infatti di intervenire ad Abud, una zona che si trova ad una trentina di chilometri da Ramallah, nei Territori occupati.

Tra il centro principale e altri 11 villaggi più piccoli che gli fanno corona, Abud conta 35.000 abitanti. Prevediamo diversi tipi di intervento, precisa Beccegato. Nei prossimi tre anni, con un preventivo di spesa che si aggira sui 700 mila euro, vogliamo innanzitutto attrezzare un centro socio-sanitario capace di garantire la normale attività ambulatoriale, assicurando altresì la presenza continua di un medico e la possibilità di far fronte a eventi improvvisi, come ad esempio i parti. A causa dei rigidi controlli ai check-point e delle ricorrenti chiusure totali dei vecchi, oggi le donne palestinesi partoriscono spesso per strada, con tutti i rischi connessi.


Il giornalista evita accuratamente di precisare che i controlli ai check-point si rendono necessari per impedire che pericolosi terroristi entrino in Israele e facciano a pezzi donne, bambini e giovani israeliani e quando i check-point vengono chiusi è perché, purtroppo, un kamikaze è riuscito a sfuggire a quei "rigidi" controlli e ha già portato a termine il suo progetto di morte.

Le donne non partorirebbero per strada se le forze di sicurezza palestinesi facessero il loro lavoro e i terroristi fossero tenuti in carcere.


Non è l’unica conseguenza delle dure condizioni di vita nei Territori occupati. Il perdurante clima di paura e la ridotta possibilità di muoversi, affidata all’arbitrio dei militari israeliani,


no, affidata alla ferocia dei kamikaze palestinesi che non si sa mai quando, dove e chi colpiranno


hanno fatto impennare i casi di ansia e di depressione, registrati ora anche fra i bambini.


Anche i bambini israeliani soffrono di ansie, paure, incubi notturni: molti perché hanno visto la loro mamma fatta a pezzi, altri perché hanno riconosciuto il loro fratellino solo dai vestiti, altri ancora perché hanno visto il loro amico del cuore dilaniato dall’esplosivo nell’autobus che li portava a scuola. La sofferenza NON è unilaterale!!


Reagendo al lancio delle pietre contro i soldati e i coloni, le autorità israeliane avevano abbattuto 100.000 ulivi nelle zone circostanti Ramallah, compresa quella di Abud. Abbiamo aiutato i palestinesi a ripiantarli, per rimettere in moto l’economia locale, conclude Beccegato.


Davvero un’iniziativa lodevole. Però se avessero anche insegnato a non tirare pietre (e pallottole) ai soldati israeliani non ci sarebbe nemmeno il bisogno di "ripiantarli" quegli alberi!!


La Caritas, come tutte le altre organizzazioni umanitarie, lavora con i palestinesi non in virtù di una scelta politica che discrimina i cittadini israeliani


Ma và e chi l’avrebbe mai detto!!

Ma perché, alla luce dei parametri economico sociali certificati a livello internazionale, solo la Palestina è considerata un Paese in via di sviluppo.


In ogni caso i motivi per i quali la Palestina sia a tutt’oggi un "paese in via di sviluppo" vengono accuratamente taciuti dal giornalista.

Si preferisce lasciar credere al lettore che sia sempre colpa dei "perfidi" israeliani se i palestinesi soffrono, se c’è la crisi economica, se c’è la disoccupazione; guai a dire una parola sulla corruzione di Arafat e del suo entourage, sul suo arricchirsi a danno del popolo palestinese, sui suoi conti bancari miliardari nei quali confluivano gli aiuti della comunità economica europea.

Viene spontaneo chiedersi: quanti bambini e giovani adolescenti resi invalidi dalla ferocia del terrorismo palestinese, costretti a vivere sulla sedia a rotelle o con arti artificiali si sarebbero potuti aiutare con una parte di quei 700 mila euro?

Quante sedute psichiatriche avrebbero potuto pagare le famiglie di quei giovani che hanno perso la voglia di vivere con una piccola parte di quei finanziamenti?

Famiglie distrutte, giovani senza futuro.

Qual è la linea discriminate che segue la Caritas e sulla base della quale decide chi soffre e chi no, chi ha diritto agli aiuti e chi può farne a meno?

Eppure da bambini, al catechismo, ci avevano insegnato che siamo tutti figli di Dio: oppure ci sono i figli di serie A e quelli di serie B?





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