Il più grande sperpero di capitale politico della storia di Israele
Analisi di Haviv Rettig Gur
(da Israele.net)
Haviv Rettig Gur
Una delle tante manifestazioni contro il governo Netanyahu
La destra israeliana si è messa nei guai. Aveva i suoi argomenti su un eccessivo potere della Corte Suprema e ne era ben convinta. Li portava avanti da decenni. Ora che si ritrova improvvisamente al timone di una coalizione interamente di destra che nessuna formazione di centro o di sinistra è in grado di far cadere, credeva di avere la sua grande occasione. Il governo ha prestato giuramento alla fine di dicembre e il 4 gennaio il ministro della giustizia Yariv Levin ha annunciato la grande riforma della giustizia. L’opposizione, lo sapevano tutti, avrebbe gridato e sbraitato. Le vecchie élite non avrebbero assistito in silenzio al loro rimpiazzo. Ma alla fine la frustrazione, alimentata per tre decenni dagli eccessi della magistratura ed ora trasformata in feroce determinazione, avrebbe visto prevalere la coalizione. Questo era il piano. Poi tutto ha cominciato ad andare storto. Non è stata le solita storia. Certo, degli ex giudici si sono effettivamente infuriati al momento previsto. Studiosi di diritto hanno firmato petizioni. Ma la coalizione di destra aveva pronte le sue risposte. La Corte Suprema israeliana – diceva – si era dilatata ben oltre qualsiasi cosa paragonabile in Occidente. Su una serie di questioni aride ma fondamentali – il potere della Corte nel vagliare le nomine alla Corte stessa, l’allargamento dei soggetti che possono farvi appello, l’ampliamento delle competenze e così via – la Corte israeliana non esercitava, come diceva la vulgata di destra, “una dittatura giudiziaria”, ma certamente costituiva un caso unico nel mondo democratico. Appariva del tutto ragionevole e legittimo cercare di arginarla, e in effetti un tempo la questione era oggetto di un serio dibattito fra studiosi sia di destra che di sinistra. Per due lunghi mesi, la destra non ha capito gli eventi. La strategia pareva semplice: strappare velocemente il cerotto senza battere ciglio né tentennare. Il problema principale, credevano Levin e il suo collega di riforma Simcha Rothman, sarebbe stato piuttosto Benjamin Netanyahu, che ha sempre preferito la quiete rispetto ad azioni dirompenti e controverse. Così venne presa la decisione: nessun dibattito, nessuna disponibilità a trattare fino alla fine dell’iter legislativo allo scopo di ridurre al minimo le occasioni per un possibile sfaldarsi della destra. Il ministro della giustizia Levin si è rifiutato di rilasciare interviste. Sono stati lanciati appelli all’opposizione perché negoziasse, ma negoziare su cosa? Levin si è rifiutato di rallentare la marcia a tappe forzate verso l’approvazione della proposta originaria di riforma, che era estrema anche stando ai suoi stessi autori (quando ne parlavano off the record, ovviamente). Ma la metà del paese che non aveva votato i partiti della coalizione ha visto nella versione estrema il vero obiettivo del governo, non una posizione tattica iniziale in vista del negoziato su una versione più moderata: in effetti, non si negozia la demolizione della democrazia rispettando la frenetica tabella di marcia dei demolitori. Ancora a metà febbraio, un personaggio di alto livello strettamente coinvolto nella riforma mi diceva: “Non è ancora il momento di scendere a compromessi”. Le prime proteste, gli appelli anche da parte di sostenitori della riforma giudiziaria a moderare, a spiegare, ad affrontare seriamente la crescente sensazione nelle strade che si trattasse di un vero e proprio assalto alla democrazia, venivano tutti respinti dagli strateghi politici della destra. Le vecchie élite, sostenevano, sono semplicemente furibonde perché si vedono portare via l’osso. Quando la destra politica iniziò a capire la portata del suo errore era ormai troppo tardi. È successo in momenti diversi per persone diverse, intensificandosi nell’ultimo mese fino a raggiungere vette notevoli la scorsa settimana, quando anche appassionati sostenitori della riforma giudiziaria – di questa riforma giudiziaria – hanno iniziato a inveire contro il governo. “Un’auto-immolazione come questa da parte della destra non si vedeva da queste parti da molto tempo”, ha scritto nel fine settimana l’editorialista di destra Sara Haetzni-Cohen, capo del gruppo di attivisti My Israel. Pur definendo la riforma “una delle iniziative legali e politiche più importanti e significative che la destra abbia messo sul tavolo da molti anni”, Haetzni-Cohen si è poi rivolta impietosamente contro il governo che aveva fino ad allora lealmente sostenuto. “Salta fuori che la coalizione di destra che abbiamo eletto e per la quale abbiamo pregato non capisce la portata del momento – ha scritto – Quasi ogni giorno ci ritroviamo con un’ennesima proposta di legge idiota o un’imbarazzante dichiarazione pubblica prodotta da questa coalizione. Continua ad allungarsi l’elenco dei disegni di legge gretti ed egoistici, il cui scopo è solo preservare il potere o servire interessi limitati. La legge sui doni [che consentirebbe regali incontrollati a dipendenti pubblici], la legge detta francese [che renderebbe immune il primo ministro dall’azione penale], la legge contro le registrazioni [che vieterebbe ai giornalisti di pubblicare registrazioni di politici senza consenso], la legge Deri [che consente a politici condannati di prestare servizio come ministri], la legge sul Dipartimento investigativo della polizia [che indebolirebbe la supervisione della polizia in caso di violenze degli agenti], la legge per prendere il controllo della Commissione elettorale centrale, la legge sul Muro Occidentale [che prevedrebbe condanne detentive per le donne vestite in modo non abbastanza morigerato nel luogo sacro di Gerusalemme], la legge sul lievito [che consentirebbe agli ospedali di vietare il cibo non kosher durante la Pasqua ebraica] e altro ancora”. Una lunga litania di accuse, quella di Haetzni-Cohen: “Ci sono proposte di legge che sono populiste al punto da essere davvero pericolose, come quella sull’immunità per i soldati che in realtà consegnerebbe i nostri migliori figli e figlie nelle mani della Corte dell’Aia. Sembra che tutto venga fatto con leggerezza, con superbia e con arroganza, guidati dal capriccio e dal desiderio di avere i titoli dei mass-media per un momento. Parlamentari che abbiamo eletto per portare il cambiamento e un nuovo messaggio ci hanno procurato principalmente imbarazzo”. Conclude Haetzni-Cohen: “Sono imbarazzata, perché per quanto io creda in questa riforma, in questa correzione, nel potere che deve tornare ai nostri rappresentanti eletti, c’è un limite a quanto posso spiegare il loro comportamento idiota e irresponsabile alla Knesset. E sai una cosa, cara coalizione? Ne ho abbastanza. Non voglio più difenderti quando mi metti in imbarazzo, non voglio sostenere le iniziative irresponsabili che ti permetti di proporre senza capire che ogni tuo piccolo movimento crea all’esterno ondate di protesta e di disgusto”. Si tratta di uno stato d’animo che è sembrato improvvisamente impadronirsi della destra. Alcuni hanno parlato di una “gara di follia” fra legislatori. Altri hanno sottolineato che forse non basta criticare semplicemente l’impressione che ne deriva, ma anche la sostanza. Tra i 141 progetti di legge avanzati dalla coalizione (all’ultimo conteggio), c’era quello che consentirebbe perquisizioni di polizia in abitazioni private senza mandato, quello per nominare altri 12 deputati della coalizione oltre ai 120 parlamentari eletti consentendo alla coalizione di ignorare del tutto l’opposizione parlamentare, quello per dare al partito al governo il controllo sulla Commissione elettorale centrale (visto dall’opposizione: un assaggio di ciò che potrebbe passare se la Corte fosse immobilizzata ndr). E tutto questo non c’entra con lo scossone giudiziario, la cui versione più estrema e problematica era ancora nel registro della Knesset fino a un paio di settimane fa, e anche dopo è stata attenuata solo lievemente. Per essere una coalizione che ribadiva a tutti che la sua riforma intende promuovere più democrazia, sembrava che si facesse di tutto per convincere del contrario chiunque tranne i più devoti sostenitori. Nessuno sa veramente cosa abbia in mente Benjamin Netanyahu. Ha una lunga e illustre storia di decisioni politiche serie e di successo e di opinioni e impegni ampiamente liberali. Ma ha anche insistito per tre lunghi mesi sul fatto che è lui che “ha entrambe le mani sul timone” di questo governo, che ne è lui responsabile con il pieno controllo della situazione, che è lui che avalla tutto ciò che accade. Netanyahu è anche la forza principale dietro ad alcuni dei progetti di legge più preoccupanti, come la “legge sui doni” promossa a spron battuto nella Commissione economica della Knesset e che consentirebbe regali quasi incontrollati e letteralmente anonimi a funzionari pubblici e politici. E’ un disegno di legge senza dubbio ad personam, che consentirebbe a Netanyahu, già facoltoso di suo, di tenere i 270mila dollari che gli sono stati dati da un defunto cugino. Il fatto che il disegno di legge stia avanzando più velocemente di quasi ogni altro punto all’ordine del giorno della coalizione, di fatto più velocemente di gran parte della stessa riforma giudiziaria, indica un nuovo tipo di Netanyahu. Il Netanyahu, in effetti, che molti hanno visto all’opera nell’improvviso licenziamento, domenica, del ministro della difesa Yoav Gallant, il Netanyahu che ha sistematicamente sventrato la democrazia interna e le istituzioni del Likud e che ora non tollera disaccordi nei ranghi del partito. Se Netanyahu ha davvero il controllo, sta diventando sempre più difficile – e non solo per l’opposizione – intravedere il vecchio Netanyahu liberale, sepolto sotto tutto questo caos. È curiosamente difficile cercare di capire quanti israeliani sostengano effettivamente la riforma giudiziaria. Nei sondaggi le stime del livello del sostegno vanno dal 17% (in un sondaggio del fine settimana che interpellava sulla specifica riforma attualmente promossa dal governo) fino al 90% che emerge da sondaggi interni della destra e che sembrano aver giocato un ruolo nella pianificazione strategica e nella presentazione della riforma da parte del governo a gennaio. A quanto pare, il modo in cui si pone la domanda produce risposte radicalmente diverse. Detto questo, è possibile azzardare uno schema di base dell’opinione pubblica israeliana: una maggioranza significativa sembra sostenere un qualche tipo di riforma giudiziaria, ma una maggioranza significativa si oppone a questa specifica riforma promossa dal governo. Ad esempio, in un sondaggio del fine settimana del giornale economico Globes solo il 17% ha dichiarato di sostenere la riforma così com’è, mentre il 25% ha dichiarato di sostenere “alcuni dei suoi elementi” e il 43% si è detto completamente contrario alla riforma. È poi evidente che nell’opposizione c’è molta preoccupazione e mobilitazione. Alla domanda se avessero partecipato personalmente a una manifestazione di protesta, ben il 19% degli intervistati ha risposto di sì: vale a dire un israeliano su cinque. Solo il 2% degli israeliani ha dichiarato di aver partecipato a tutte le proteste settimanali, ma la maggior parte (il 15% di tutti gli intervistati) dice di aver partecipato da una a quattro volte. In altri termini, le proteste che raccolgono settimanalmente circa 200.000 persone (in varie città) rappresentano almeno cinque volte più manifestanti nella popolazione generale. È stato in questo contesto tumultuoso, con una base di attivisti di destra sempre più amareggiata e convinta che il governo, più che l’opposizione, abbia creato questo scompiglio, e di fronte a un crescente movimento di protesta a cui già partecipa attivamente un quinto della popolazione, è in questo contesto che Netanyahu ha estromesso il suo ministro della difesa a causa del suo appello a sospendere l’iter di approvazione della riforma (per ragioni di sicurezza del paese ndr). È stato il catalizzatore che ha rivelato quanto potesse crescere il movimento di protesta. Twitter in ebraico ha iniziato a riempirsi di nuove voci: persone di destra, elettori del Likud, persino sostenitori delle riforme, improvvisamente stanchi del governo e disposti a prendere posizione. E la cosa ha avuto quasi immediata ripercussione nella sfera politica. “Abbiamo pagato un prezzo pesante” ha lamentato Miki Zohar, del Likud, per “non aver spiegato” la riforma. Reso cauto dalla sorte di Gallant, Zohar non ha chiesto un congelamento, ma ha esortato a sostenere Netanyahu se dovesse decidere per un congelamento. L’idea che il governo, e non la “sinistra” o gli “anarchici” accusati da Netanyahu, fosse responsabile del disastro è diventata improvvisamente ovvia per tutti. “Dobbiamo ammettere onestamente che abbiamo preso la direzione sbagliata – ha detto il ministro per gli affari della diaspora Amihai Chikli, del Likud – Il nostro errore non è nella urgente necessità della riforma, che è più necessaria ora che mai, ma nella sua attuazione”. Il ministro dell’economia Nir Barkat, pure lui del Likud, ha espresso un concetto simile: “Sosterrò il primo ministro nella decisione di fermarsi e riconsiderare. La riforma è importante e la faremo, ma non a costo di una guerra civile”. Alcuni opinionisti di destra tra i più favorevoli sono giunti alla stessa conclusione. E ora dove va la destra israeliana? Ha annunciato un drammatico cambiamento dell’ordine costituzionale del paese come si dichiara una guerra. Ha promosso una guerra-lampo nel corpo di un paese profondamente diviso, annunciando a gran voce l’intenzione di abolire basilari tutele liberali. È partita con una versione estrema della sua riforma, che alcuni dei suoi stessi sostenitori ora sostengono fosse una mera tattica ma che in pratica avrebbe vanificato la Corte Suprema e smantellato la maggior parte dei pesi e contrappesi del sistema politico. Non ha aperto un dibattito, non ha dato ascolto, non ha cercato di convincere contrari e dubbiosi fino a quando la partita era molto avanti, finché non si è spaventata per i contraccolpi. Finché era troppo tardi. E ha fatto tutto questo in un paese dove i sondaggi rilevano un ampio sostegno a una qualche versione della riforma giudiziaria (ma non questa). Mai nella storia del paese, così tanto capitale politico e un successo elettorale conquistato con tanta fatica sono stati così rapidamente e ampiamente sperperati. Ogni minuto trascorso dal 4 gennaio è stata una corsa testa a testa tra la precipitosa fuga in avanti legislativa di Levin-Rothman-Netanyahu e l’emorragia del capitale politico della destra. Tutto è ancora in alto mare. Nessuno sa esattamente dove approderanno le cose. Ma non importa chi vince la gara: il danno causato dagli ultimi tre mesi di follia e arroganza non sarà rapidamente riparato.
(Da: Times of Israel, 27.3.23)