Washington deve riprendere un ruolo centrale nelle relazioni internazionali
Analisi di Antonio Donno
Joe Biden
La distanza che separa oggi gli Stati Uniti di Biden dall’Israele di Netanyahu non deriva soltanto dall’opposizione americana alla legge sulla giustizia così fortemente contestata. O meglio, la contestazione odierna da parte di Washington accentua un’incomprensione che ha le sue radici negli anni dei due mandati presidenziali di Barak Obama. Obama rappresentò l’espressione di una sezione del partito democratico che in quel periodo riuscì a prevalere sulla parte maggioritaria, quella dei moderati, e che oggi continua a imporre le sue posizioni nella politica di Biden. Né tantomeno l’indirizzo della politica internazionale americana ai tempi di Trump mutò nella sostanza. Certo, il riavvicinamento a Israele si verificò grazie al sostegno americano al varo degli “Accordi di Abramo”, ma quell’evento fu un’eccezione rispetto al sostanziale posizionamento degli Stati Uniti ai margini delle relazioni internazionali. Negli anni di Obama, dunque, e di Trump, Washington operò un ritiro progressivo dal ruolo di prima potenza nella scena politica internazionale; la parola d’ordine di Obama fu radicale rispetto alla politica perseguita dagli Stati Uniti per tutto il secondo dopoguerra: no all’imperialismo americano, no alla politica di potenza degli Stati Uniti, no alla presenza invasiva di Washington in ogni aspetto delle relazioni internazionali.
Grazie al predominio dell’ala radicale nella politica di Obama, di cui lo stesso presidente era il massimo rappresentante, e oggi di Biden, gli antiamericani di ogni tendenza politica hanno avuto la meglio dopo anni di dura contestazione, aprendo, così, la strada al duo Russia-Cina, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti gli osservatori privi di pregiudizi. Benché le ultime iniziative di Biden – il sostegno politico e militare all’Ucraina, il varo dell’Aukus, il partenariato strategico tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito in funzione anti-cinese, e la visita di Blinken in alcuni Paesi del Centro-Asia – hanno iniziato a dare un nuovo impulso alle relazioni internazionali di Washington, il terreno perduto sino a questo momento è recuperabile soltanto con una svolta radicale che dia continuità alle ultime iniziative e, nel contempo, proponga una ripresa decisa dell’azione americana a livello globale, a partire dal nostro continente, dove la pochezza dell’Unione Europea è uno stimolo per l’avanzata della Cina.
Tuttavia, la storia delle relazioni internazionali ci insegna che le posizioni perdute possono essere recuperate con grande difficoltà e soltanto attraverso una lunga, decisa azione di riposizionamento strategico. Nella situazione attuale il terreno perduto non è un vacuum nello scacchiere internazionale, perché Russia e Cina – soprattutto quest’ultima – stanno provvedendo a colmare le assenze. Si veda il caso, come si è detto in articoli comparsi su IC – degli Stati insulari dell’Oceano Pacifico, controllati dalla fine del secondo conflitto mondiale dagli Stati Uniti, e ora sotto l’attenta valutazione della loro importanza strategica da parte della Cina, e dell’immensa area del Polo Nord, le cui grandi risorse sono nel mirino politico di Russia e Cina. L’Africa e l’America Latina sono anch’esse nei progetti strategici delle due potenze asiatiche, in assenza degli Stati Uniti.
Il quadro politico internazionale sta da qualche tempo subendo una trasformazione radicale, che non vede più Washington al centro del panorama politico mondiale. In questo quadro tutto si interconnette. Il ritiro degli Stati Uniti dal centro della politica internazionale come fattore di equilibrio democratico ha conseguenze in ogni area del quadrante politico e strategico globale. E il Medio Oriente ne è il risultato più eclatante. Benché gli “Accordi di Abramo” abbiano un’importanza evidente, l’Iran si muove con destrezza nell’area del Golfo Persico: il Qatar sciita non ha mai rinunciato all’appoggio di Teheran, l’Arabia Saudita ha firmato un protocollo d’intesa politico-economica con l’Iran e, più di recente, il Sudan, che fa parte degli “Accordi di Abramo”, ha fatto la stessa cosa con il Paese degli ayatollah. Insomma, ci si difende dall’Iran aderendo agli “Accordi di Abramo”, ma, nello stesso tempo, stringendo accordi con Teheran. Un doppio gioco che rende il Medio Oriente un terreno equivoco per qualsiasi soluzione di stabilità. Netanyahu è ben consapevole di questa doppia realtà e tenta di riaprire un vero dialogo con Washington, che tuttavia è riluttante su questo argomento. La soluzione dell’ambiguità americana è rimandata alle elezioni presidenziali del 2024.
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