Il racconto di una famiglia ucraina Cronaca di Brunella Giovara
Testata: La Repubblica Data: 23 marzo 2023 Pagina: 12 Autore: Brunella Giovara Titolo: «“Noi, via da Bakhmut salvati dalla soffiata di un soldato Wagner”»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 23/03/2023, a pag.12, con il titolo "Noi, via da Bakhmut salvati dalla soffiata di un soldato Wagner", l'analisi di Brunella Giovara.
KRAMATORSK — Per salvare una figlia si possono anche attraversare le linee, lottare con i rovi, farsi sparare, «ci hanno sparato sia i russi che gli ucraini, ma solo così, per farci andare via». I soldati che combattono a Bakhmut hanno visto quei tre passare nei loro visori notturni, era qualche notte fa, e poi anche di giorno, capendo che non erano il nemico ma tre disgraziati civili con il cuore impazzito, i vestiti stracciati dalle spine. Si spara a un metro di distanza dai piedi, così uno capisce che deve andare, togliersi da lì. Se ti fermi, misurano la mira per avere il campo libero, nessuno deve stare in mezzo al tiro, che sia un cane, un uomo, un cinghiale. E loro hanno imparato, nel viaggio di tre giorni dalla frazione Opytne di Bakhmut, fino a Chasiv Jar e da qui a Kramatorsk, sempre sotto i colpi di mortaio, le esplosioni che illuminavano i sentieri, perciò quando li hanno raccolti sembravano morti, così abbandonati su una strada polverosa, sul lato ucraino del fronte. Invece erano vivi. Quanti chilometri ha fatto, questo Oleksandr Kostantinovic Venceslavski, che ha 66 anni e pensa solo alle mucche abbandonate a casa. «Sono pieno di dolore, le ho dovute lasciare lì, quattro vacche e due vitellini. Mi hanno guardato l’ultima volta, poi siamo andati». La figlia Natalia racconta che «è stato terribile, sono i nostri animali, a quest’ora sono tutti morti». E la figlia di Natalia, una ragazza di 19 anni con le gambe gonfie per i 20 chilometri a piedi, sa di essere sopravvissuta due volte. «I russi volevano prendere Sofia, se la mangiavano con gli occhi…». Perciò hanno deciso di partire, «noi abitiamo nella via Karl Marx, che è in periferia. A Bakhmut non andavamo più, da una parte ci sono i russi, dall’altra gli ucraini. Noi siamo ucraini di lingua russa, l’invasione ci ha spaventati ma da noi non era mai venuto nessuno. Sentivamo le esplosioni, gli spari. Stavamo chiusi in casa, e nella stalla». Ma sono arrivati «gli uomini di Kadirov. Volevano i cellulari, uno l’abbiamo consegnato, gli altri due li abbiamo nascosti nel letame, avvolti nella plastica». E sono arrivati anche i “wagneriti”, che volevano i telefoni. Hanno cominciato a molestare me, e io pensavo che Sofia non la dovevano toccare, dovevo salvarla. Il comandante ci ha detto che dovevamo andarcene, o a Donetsk o a Lugansk. Che non poteva garantire per i suoi uomini. Di nascosto, uno di loro, giovane,ci ha detto di portare via la ragazza». E così hanno fatto, era la mattina presto, davanti a loro c’era la strada principale, la Nezalegnist, deserta. «Si vedevano degli incendi, ma nessuno sparava. La nebbia ci copriva, lungo il sentiero che porta alla diga distrutta». Lì il fiume è stretto e c’è un passaggio fatto di assi «dove abbiamo trovato il nostro vicino di casa. Morto, la faccia nell’erba». Ed entrando in centro, è stato grande lo stupore nel vedere «le case tutte sventrate, gli oggetti sparsi in strada, e tutto eramezzo bruciato. Poi sono partite le mitragliate». C’erano case quasi intere, altre nere di incendi, le macerie di quelle crollate, e gente di co rsa, ordini urlati, «ci siamo nascosti in più case, poi abbiamo deciso di andare verso il quartiere Olimpiska, ma lì abbiamo visto un morto in mezzo alla strada». Chi era, non lo sanno «perché era carbonizzato, forse un militare, forse un civile. Ma era un uomo». A Olimpiska non sono mai arrivati, perché costretti sempre a nascondersi, Natalia dice che l’idea era «arrivare alla stazione e trovareun autobus, una macchina che ci portasse a Chasiv Jar». Allora «siamo andati sulla via Iuvileina, dove non c’era nessuno. E siamo saliti verso Kromove, ma neanche lì siamo riusciti a passare, il fuoco era incrociato. Allora abbiamo preso per i campi». Verso la periferia sud, in quel punto dice Oleksandr che non ci sono trincee russe, né fortificazioni. «Siamo stati sotto gli alberi, aspettando l’alba. C’erano i mortai. I russi sparavano alle nostre spalle. E pioveva, c’era un fango tremendo, le nostre due valigie pesavano così tanto che volevamo lasciarle lì». Poi hanno passato la prima linea ucraina, lì sono partiti gli spari di avvertimento e loro via via, verso la seconda linea, «dove i nostri soldati ci guardavano senza parlare, gli siamo passati in mezzo e nessuno ha detto niente. E ci siamo trascinati verso Chasiv Jar, dove bombardavano, ma almeno eravamo in Ucraina. Ci siamo accampati, abbiamo mangiato il pane e formaggio che avevamo portato, bevuto l’acqua». Sofia dice «ci ha salvate il nonno, che conosce tutti i sentieri. Sennò saremmo morte come sono morte le mucche». Attraversando Chasiv Jar, hanno pensato che forse era quasi finita. Ma loro erano ormai del tutto sfiniti, «passavano delle macchine militari, e i tank. Nessuno si fermava, nessuno ci vedeva», sporchi di fango «e così stanchi» che si sono fermati sulla strada, e lì li ha trovati una macchina scassata con targa polacca. Era un gruppo di volontari polacchi che recuperano gente sfollata e disperata, i naufraghi della guerra come sono Natalia, Sofia e Oleksandr. «Uno si chiama Marek, ci ha molto aiutato, ci ha dato subito da mangiare», e Marek li ha portati a Kramatorsk all’Arca di Noè, il centro cristiano evangelico che organizza le evacuazioni dei civili verso ovest. E ovest qui significa la pace, o quasi.
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