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La Stampa Rassegna Stampa
25.04.2003 Dopo giorni di silenzio finalmente La Stampa .....
Il dopo Arafat-Abu Mazen riportato correttamente da Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 25 aprile 2003
Pagina: 6
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Israele: un uomo bomba non frena le aspettative»
Sulle polemiche Arafat Abu Mazen La Stampa di Torino ha stranamente glissato. Per sapere che cosa succedeva fra i leaders palestinesi bisognava leggere altri giornali. Oggi finalmente esce un ottimo pezzo di Fiamma Nirenstein che ci racconta correttamente la situazione. Come mai La Stampa ha atteso così tanto ? E perchè sul sito internet della Stampa i pezzi di Fiamma Nirenstein escono sempre senza la sua firma ? dimenticanza ? invitiamo i nostri lettori a chiederlo al giornale torinese. Se lo chiederanno in molti (inviare e-mail) forse se ne accorgerà anche il disattento redattore del sito internet.
GERUSALEMME CERTO non fa un bell’effetto che sia stata l’esplosione di un terrorista suicida, oltretutto firmato Al Fatah, a segnare il primo giorno del nuovo tormentato governo di Abu Mazen. La guardia (23 anni), che l’ha fermato col suo corpo rimettendoci la vita, ha evitato una strage fra i passeggeri del treno dei pendolari. Abu Mazen deve oggi ringraziare lui se tutto non è naufragato prima di cominciare, e se Sharon ha invece confermato la sua volontà di organizzare un primo incontro quanto prima. Ma la minaccia è molto attiva: secondo i servizi segreti, quali che siano le condizioni politiche, le organizzazioni terroristiche sono sempre determinate a colpire quanto più possibile, e ieri sono stati 50 gli avvertimenti cui la polizia ha cercato di badare. E tuttavia un nuovo scenario si apre, quello che Bush ha chiesto perché prenda il largo un piano di pace che rassicuri il Medio Oriente delle buone intenzioni del mondo occidentale verso quello arabo: dopo infinite trattative e insistenze, Abu Mazen è primo ministro, ha un suo governo, e ciò non era certo. Tuttavia, anche se è un dato importante, questo è un fatto non inusitato nel mondo arabo, dove esistono parecchi primi ministri che affiancano i Raíss, ma di quasi nessuno si conosce il nome. Qui abbiamo però un personaggio di livello, cresciuto proprio in seno alla «couche» di Al Fatah, molto vicino al capo in ogni circostanza, con un pedigree di combattente che gli ha permesso di tenere duro per molti giorni di fronte al capo supremo e anche di dire di sì, alla fine, senza apparire umiliato dal fatto che il suo governo adesso contiene più nomi di personaggi familiari e fedeli a Abu Ammar di quanti non ve ne siano di vicini a lui. Muhammed Dahlan, il pomo della contesa, il soldato di ventura di Gaza prescelto da Abu Mazen per combattere il terrore proprio per le sue radici nelle più dure organizzazioni palestinesi, non sarà ministro degli Interni, ma avrà tuttavia un posto rilevante che gli consentirà di controllare una parte abbastanza larga della polizia. Abu Mazen potrà giostrare almeno su tre milizie, anche se non ha portato a casa il suo scopo principale, quello di unificare le milizie armate sotto un solo comando, così da potere intraprendere una lotta effettiva contro il terrore e un uso interno degli armati a seconda delle necessità. Abu Mazen sa bene di potere contare su un largo appoggio internazionale, di potere richiedere aiuti all’Europa e agli Usa senza trovare le stesse facce disgustate dal terrorismo che ha trovate Arafat nell’ultimo anno e mezzo. Anche il mondo arabo, e prima di tutto l’Egitto, che ha mandato il suo capo dei servizi segreti Suleiman, confidente di Mubarak, a insistere presso Arafat perché il compromesso fosse trovato, ha coperto Arafat di telefonate insistenti che dicevano grosso modo questo: «Cerchiamo di non surriscaldare di nuovo la temperatura dopo la guerra contro Saddam Hussein. Hai l’occasione di buttare la palla nel campo di Sharon, lascia che Abu Mazen, che non ti tradirà mai anche se insiste per avere pieni poteri, organizzi il suo Gabinetto. Se vedrai che la faccenda non funziona, tu che l’hai benedetto, puoi sempre decidere altrimenti. Ma non ti prendere la responsabilità di far fallire la Road Map, semmai lasciala agli israeliani; perché Bush non scherza, e Blair è comunque ben deciso a favorire il campo palestinese». Sullo spiazzo polveroso e sudato di Ramallah, chi ha visto Arafat uscire tenendo a braccetto a sinistra Abu Mzen e a destra Suleiman e ha guardato bene il suo volto, non può avere dubbi: Abu Ammar, soddisfatto ancorché scosso, non lascia la strada sgombera per il secondo Abu. Le milizie sono rimaste divise, una guerra eventuale al terrore - che è la condizione con cui si riavvia il processo di pace - Abu Mazen non può deciderla se non avendo il consenso del Capo e dei suoi uomini, Abdel Rabbo, Nabil Shaat, Saeb Erakhar, e tanti altri, che siedono con lui, nel suo governo. Adesso che Arafat ha generosamente lasciato passare Abu Mazen, i politici di tutto il mondo potranno di nuovo visitarlo a Ramallah, e forse giungerà anche un invito da Washington. La condizione di «irrilevanza» in quanto capo di una guerra in cui il terrorismo l’ha fatta da padrone, e di un sistema illiberale, è superata momentaneamente secondo i criteri stabiliti da Blair e da Bush: con uno dei suoi colpi da maestro, Arafat simboleggia non solo, come al solito, la lotta di liberazione nazionale dei palestinesi, ma diviene anche (a fronte di un leader alla fin fine imposto dagli Usa e dagli Americani), l’immagine quintessenziale dell’autonomia e dall’autodeterminazione agli occhi del suo popolo. Quindi, il braccio di ferro sarà difficile, e sarà dura per Abu Mazen e Dahlan emergere dal grande abbraccio con cui al momento li tiene avvinti il Raíss, cui da quasi quarant’anni è legata la vicenda dei palestinesi. E infine, ma non meno importante: oltre al messaggio continuamente sottinteso di Arafat, che impone fedeltà, le organizzazioni terroristiche, tutte, e non solo Hamas, hanno fatto sapere ieri a Abu Mazen che la sua politica è loro nemica.






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