Igor Man o Liala ? Sia detto con tutto il rispetto verso l'amatissima scrittrice
Testata: La Stampa Data: 25 aprile 2003 Pagina: 3 Autore: Igor Man Titolo: «L'otto di picche che citava Shakespeare e Cervantes»
Riportiamo interamente qui di seguito l'articolo di Igor Man uscito sulla Stampa oggi 25 aprile 2003 per la delizia dei nostri lettori. Se c'è una cosa che ad igorman non si può rimproverare è una certa conoscenza del mondo arabo fatta più che altro da da frequetazioni personali. Non c'è capataz che lui non abbia preso sottobraccio. Nelle ambasciate, nei grandi alberghi, igorman ha raccolto in diversi decenni dichiarazioni ufficiali e confidenze. Ricambiandole sempre con articoli densi di devozione. Naturalmente non manca l'intelligenza della critica. Che esperto sarebbe se suonasse sempre e solo il violino ? Tranne Arafat, che per il nostro ha sempre rappresentato il più grande avversario di Israele e quindi meritevole di un posto d'onore, igorman liscia e scalcia sì da non sembrare troppo sbilanciato. Ma gli anni passano anche per il nostro "vecchio cronista" -come lui si autodefinisce vezzeggiandosi non poco- e al posto dell'analisi di politica estera sempre più spesso i suoi articoli sono conditi di ricordi. La frecciata contro Israele e contro l'America -più o meno visibile a seconda del momento- non manca mai. Ma è soprattutto il tono patetico-pettegolo che contrassegna la produzione del nostro. Saddam che si tinge i capelli e Terek Aziz no. Il libro di un poeta spagnolo che Aziz può aver dimenticato sul comodino da letto nella stanza del suo albergo a Ginevra si presta a sostituire le infinite citazioni del Corano con le quali immancabilmente il nostro chiude i suoi articoli (ma che fa igorman, entra nelle camere altrui ?), insomma lasciamo ai nostri lettori giudicare il tono e lo stile che a noi pare sempre più lailesco. E sia detto senza offesa per la sublime scrittrice. Ah, dimenticavamo, il nostro cita con onorevole compassione l'impiccagione avvenuta negli anni '70 in Piazza della Repubblica a Baghdad di alcuni ebrei accusati ingiustamente di essere delle spie. Per entrare nelle grazie di igorman gli ebrei devono essere defunti. Se per loro disgrazia sono israeliani,si difendono e sono di conseguenza vivi, allora sono cattivi. Buona lettura, con una ultima riflessione. Igorman non ha scritto una sola parole in questi giorni sul braccio di ferro gtra Arafat,Abu Mazen,Mohammed Dahlan. Che stia aspettando di vedere come va a finire ? TIMIDO MA INFLESSIBILE, IN DIPLOMAZIA GIOCAVA LA PARTE DEL BUONO L’«otto di picche» che citava Shakespeare e Cervantes L’unico non musulmano del regime caduto è un uomo d’acciaio molto addentro ai segreti del Baath. Ma adesso chi lo processerà?
25/4/2003
NON è più un poker bensì un ramino. Catturato Tareq Aziz, otto di picche nel mazzo delle 55 carte da poker con i nomi degli esponenti del defunto regime iracheno da catturare, adesso non rimane che lui, il Tiranno, da prendere anche se al Cairo insistono nel ritenerlo al sicuro forse addirittura fin dal terzo giorno di guerra. Lui in Ucraina, i suoi sosia in giro a confondere le acque, a far dannare i «lupi» più assatanati del servizio segreto britannico che avrebbe infiltrato i suoi uomini più capaci sin dall’autunno scorso. Sia come sia, la cattura di Tareq Aziz avvicina la vittoria anglosassone al famoso «trionfo» sin qui mancato. Tutta la fase di ricostruzione in prospettiva ampia e di non eccessivo respiro, la riattivazione dei servizi essenziali (dalla polizia alla scuola, dai trasporti agli ospedali) in un Paese complicato qual è l’Iraq, non potranno non risentire positivamente della cattura di Tareq Aziz. E’ infatti una scarica di adrenalina, per chi si trova ad affrontare problemi che affondano lunghe radici complicate soprattutto nel magmatico terreno tribale e in quello socialreligioso. Il risveglio degli sciiti, da sempre gli underdogs della situazione, va imbrigliato con accortezza diplomatica e senza isterismi: dietro l’angolo incombe lo spettro d’una rivoluzione di tipo khomeinista. La realtà sciita è il 60 per cento d’una popolazione musulmana che sente l’arabismo come pochi altri Paesi islamici. E questo «dato» incide come un’incognita maligna nei piani di normalizzazione apparecchiati dai vincitori. Non fosse altro perché la realtà sciita è speculare, in quanto a pericolosità, alla realtà curda. C’è un popolo, il curdo appunto, cui è stata scippata la patria. Disperso in cinque Paesi, tradito nella sua Storia più volte e, in ultimo, gasato da Saddam Hussein (Halabjia, dice niente questo nome?), c’è un popolo cui bisogna ridar dignità, identità e un minimo di autonomia, pena una più vasta, dilagante tragedia con complicazioni internazionali (per la Turchia i curdi sono una spina nel fianco). La cattura di Tareq Aziz getta, certamente, una luce d’ottimismo nel tunnel di un dopoguerra complicatissimo anche per i fermenti che la crisi palestinese (teoricamente a un «bivio positivo») provoca, per opposti motivi, nel cuore e nella mente degli israeliani e dei palestinesi. Questi ultimi in particolare che, nel bene e nel male, han sempre guardato ad Arafat (oggi apparentemente in debito d’ossigeno) come al vecchio al-Khitiar, padre. Della Nazione che esiste ma formalmente non c’è ancora, chiamata Palestina. Ultimo, ma non meno importante: che farà, il vincitore, d’un uomo ingombrante come Tareq Aziz? L’Iraq non ha firmato quella convenzione che gli consentirebbe di portarlo davanti al tribunale internazionale, sicché si potrebbe ipotizzare un processo in terra irachena. Imbarazzante al massimo. Tareq Aziz è in un certo senso la memoria storica del partito Baath, dell’Iraq post moderno edificato a suo tempo dall’Armata Rossa, e di quello attuale: letteralmente in pezzi tuttavia ricco d’una sua specificità: fatta di crudele spirito di vendetta ma altresì di dignità diremo patriottica, di una gran voglia di lavorare per riprendersi. Di più: in un eventuale processo, Tareq Aziz potrebbe mettere in imbarazzo non solo i suoi ex compagni d’avventura, lo stesso Raíss, lui, Saddam, ma anche quelli che oggi sono i nemici vincitori che, ieri, furono in rapporti non certo animosi con Tareq Aziz, con lo stesso Saddam. L’unico non musulmano di quello che era il gabinetto di Baghdad è un uomo duro, freddo come l’ossidiana. Di giusta statura, capelli candidi (Saddam se li tingeva, lui ha smesso da più di vent’anni), baffi neri, occhi acquosi ma saettanti dietro un par di lenti assai spesse. Dietro quella faccia paciosa che ispira fiducia, c’era l’ideologo inflessibile del Baath, nelle cui fila era entrato, al pari di Saddam, giovanissimo. Il Baath è quel partito socialista arabo che era stato fondato nei Quaranta dal siriano Michel Aflaq, cristiano successivamente convertitosi all’Islam, e dal musulmano Salah Bitar, quel partito della Rinascita che conobbe una scissione nei Sessanta: Aflaq lasciò Damasco, trasferendosi a Baghdad, dove è morto. La scissione non ha aveva indebolito il Baath (un partito nazionalsocialista, a conti fatti) ma ne ha creati due: acerrimi rivali; uno sta in Siria ed è il partito unico; l’altro, prima dell’intervento americano, aveva sede in Iraq. Se c’è una persona al mondo alla quale Saddam abbia portato rispetto e ubbidienza (ideologica), questa persona fu Michel Aflaq. La vulgata pretende che Saddam e Aziz abbiano giocato per molti anni quello che in America chiamano il balletto del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Aziz, in grazia di una scaltra intelligenza, d’un inglese fluente sul serio, condito di citazioni da Shakespeare e Milton, quando non da Cervantes (il nostro parla anche lo spagnolo), coi suoi modi garbatamente timidi e quella sfumatura cinica d’un mezzo sorriso sulle labbra espressive ha sempre incantato diplomatici e giornalisti occidentali. Tanto da meritare l’etichetta di «moderato». In verità moderato lo è, ma solo nel linguaggio, nel tono di voce grave, sommessa. Al di là di codesta cortina «c’è un muro di cemento armato». Va detto, tuttavia, come sia stato lui, Tareq, a governare l’incredibile accostata dell’Iraq all’Occidente, anzi agli Stati Uniti (lasciando così a piedi i fabbricatori dell’Iraq di Saddam: i generaloni dell’Armata Rossa) allorché la guerra (8 anni) con l’Iran aveva messo in ginocchio il regime di Baghdad. Quell’accostata, meglio: l’approdo al pragmatico porto americano gli valse il titolo di «filo-occidentale». Al punto che quando Saddam invase il Kuwait, di lui, di Tareq, non si sapeva più nulla. Sparito. Ma un giorno ricomparve accanto al suo Raíss e padrone, clamorosamente smentendo, col solito mezzo sorriso, le voci che lo volevano addirittura «impiccato per alto tradimento». In realtà Tareq purgò la sua sbornia di americanismo agli arresti domiciliari, approfondendo gli studi dello spagnolo. Dopo un’autocritica in buona e dovuta forma, venne ammesso al baciamano del tiranno decisosi a perdonarlo. Non per generosità d’animo ma perché in quella difficile congiuntura l’unico a poter «trattare» con gli Usa era lui, soltanto lui. Tareq era sempre riuscito a dar l’impressione che fosse più facile discutere con lui che non con Saddam. Qualcuno che lo conosce bene ci ha detto, giusto dieci anni fa, che Tareq si dedicò, non senza una punta di masochismo, a stimolare l’intransigenza di Saddam Hussein, la sua caparbietà, il patologico culto della personalità del tiranno mesopotamico. Ma c’è anche chi sostiene che se Aziz avesse conservato un po’ «del suo coraggio giovanile», Saddam non avrebbe compiuto le fughe in avanti che gli sono costate la perdita del potere. Il 15 luglio ‘72, rievocando il processo che portò, il 26 gennaio ‘69, all’impiccagione in Piazza della Repubblica (da quel giorno ribattezzata Piazza degli Impiccati), al cospetto di centinaia di migliaia di persone, bambini compresi, di 16 «sovversivi» (dieci erano, come di solito in Iraq, ebrei colpevoli solo d’essere ebrei), sul giornale del partito Baath che Aziz dirigeva, così egli scrisse: «La Rivoluzione aveva deciso di estirpare le reti spionistiche senza pietà e quindi venne stabilito di giustiziare i condannati in pubblico». Ancora: «Sarebbe ingiusto pensare che le migliaia e migliaia di persone che si sono mosse per qui convenire, per vedere i corpi pendere dal patibolo, fossero dei barbari o dei primitivi. Sarebbe ingiusto e per di più sbagliato. Questo avvenimento (l’impiccagione pubblica) è un monumento eretto dalla Rivoluzione per dimostrare a tutti che ciò che in passato era stato possibile, ora era un fatto che parlava da solo». In extremis, nel 1991, a Ginevra, Aziz incontrò l’allora segretario di Stato americano James Baker: per verificare l’ultima chance. Infagottato in un abito civile di sciagurata fattura perché, di solito, il Raíss pretende che i suoi uomini vestano in divisa (ch’è poi la divisa degli antichi colonizzatori inglesi), lui, Saddam, che non aveva mai fatto un giorno di naja epperò s’era autopromosso «comandante supremo», infagottato, dicevo, in panni brutti, il Tareq Aziz, curvo, lo sguardo perduto nel vuoto, francamente muoveva a compassione. Prima di ripartire per Baghdad, che di lì a poche ore sarebbe stata bombardata, pregò il direttore dell’Intercontinental (di Ginevra), l’affabile Herbert Schött, di comperargli «la solita cioccolata, i soliti sigari» (cubani). «Se perdo questa occasione, dove trovo più la cioccolata svizzera per mia moglie e i sigari per me?», disse umile come un vecchio ragazzo triste che l’ha fatta grossa. Sul comodino da notte della suite di solito a lui riservata, tutta in autentico stile inglese, la governante trovò un libro di poesie. Un libretto del poeta spagnolo Rafael Sanchez Ferlosio (conosciuto non da molti amanti della poesia, ma da significativi lettori). Non s’è saputo se quell’aureo libretto fosse di Aziz, da lui dimenticato, o di un altro supercliente. Rimane il fatto ch’essi, i versi di Ferlosio, fossero drammaticamente profetici: «Vendrán más años malos / y nos harán más ciegos. / Vendrán más años ciegos / y nos harán más malos».
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