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Eredità Jacques Fux Traduzione di Vincenzo Barca Giuntina euro 14,00 “Le generazioni hanno bisogno di parlare. Di testimoniare. Di trasformare l’indicibile in racconto e riflessione. Di dare forma a ciò che è stato murato dal silenzio e che non cessa di ripetersi di generazione in generazione. Parlare vuol dire riscattare, vuol dire dar nome e volto a qualcosa” Cosa vuol dire per un figlio avere un genitore o per un nipote avere un nonno, sopravvissuto alla Shoah, che ha sperimentato la morte in molte sue forme, che ha visto torturare persone care, che ha perso genitori, fratelli, che ha assistito a sofferenze gratuite circondato da cumuli di cadaveri e lui stesso si è salvato chissà come e con quale percorso psicofisico?
Benchè gli stessi sopravvissuti evitassero di parlare delle loro esperienze nei campi di sterminio è ormai noto che quel trauma che ha avuto molteplici effetti sulla vita futura non ha risparmiato neppure i loro discendenti. Ereditare un trauma non tuo, non risarcibile, non raccontabile perché circoscritto in un nucleo di silenzio e disperazione, impossibile da metabolizzare è un fardello che genera una sofferenza costante per chi deve interagire con il proprio familiare.
“Tre generazioni distanti legate dal silenzio” raccontano come il trauma delle esperienze vissute nel campo di sterminio possa condizionare per anni l’esistenza di figli e nipoti dei sopravvissuti.
Il libro prende avvio con il diario di Sara K. nel gennaio 1945 all’arrivo dei russi quando ormai non ha più nemmeno la forza di parlare. “Bisognerebbe inventare parole…un nuovo modo di parlare di cose e di gente che ormai non esistono. Parole come quelle che scrivevo da giovane”. Il diario, infatti, è un dono ricevuto per il suo compleanno nell’agosto 1939 e lei come ogni adolescente comincia ad annotarvi emozioni, pensieri, riflessioni confidando anche i primi sussulti del cuore per il giovane Dawid. Pagina dopo pagina però il diario diventa il doloroso resoconto della vita nel ghetto di Lodz negli anni dell’occupazione nazista: le vessazioni nei confronti di anziani e bambini, le deportazioni, la miseria, la fame, la sottrazione del lavoro e alla fine la perdita della dignità stessa. Sono i genitori e le sorelle più piccole ad essere deportati per primi, poi finirà ad Auschwitz anche Sara con l’adorata sorella Clara. Unica sopravvissuta al campo di sterminio Sara lascerà l’Europa per il Brasile per tentare di ricominciare un’esistenza lontana dagli orrori della guerra, senza immaginare però che quei fantasmi la seguiranno fin là.
Sulla nave che la porta a San Paolo Sara incontra Yaacov più vecchio di lei: due solitudini si uniscono in un “matrimonio di disperazione che cercava di mettere il punto finale alla catastrofe”. Nel 1949 nasce Clara che fin da piccola prova la sensazione di essere schiacciata dall’affetto maldestro di una madre che sente muta ed estranea. Negli anni della sua infanzia e adolescenza Clara deve imparare a convivere con i silenzi, la rabbia, e la sofferenza di una donna che aveva vissuto l’indicibile.
Entriamo nella mente di Clara attraverso le sue sedute dalla psicoterapeuta che cerca di sciogliere i nodi aggrovigliati di un’anima pervasa da un dolore cristallizzato che non trova sbocchi. Sono pagine durissime, di difficile lettura, quelle che portano alla luce gli episodi di vita familiare più dolorosi - costellati dai silenzi, dalle reazioni fuori controllo della madre e dal rifiuto di condividere il suo passato - che l’autore lascia trapelare, senza porre barriere, interpretando in modo magistrale l’angoscia che sommerge la vita di Clara e si manifesta nei tentativi maldestri di instaurare qualsiasi rapporto affettivo. Il trauma della Shoah è dunque destinato a riverberarsi anche sulla figlia Lola (è il nome della mamma di Sara) nata da un rapporto disturbato che si è concluso con un rinnovato dolore per Clara.
Ricercatrice universitaria che studia gli effetti della Shoah sulle generazioni successive, la nipote di Sara si chiede “Come accademica devo riuscire a separare l’oggetto delle mie ricerche dalle mie questioni personali. Ma come separare il corpo dal sangue?” Lola non conosce le sue origini, ma i segni lasciati dalla madre non le permettono “di vivere senza rovine”. Nata a Recife nel 1984, la nipote di Sara racconta nelle sue annotazioni di essere stata fin da piccola una bambina problematica: “Mi sentivo – ed ero vista – come un’aliena”. Come spesso accade ai nipoti dei sopravvissuti la scoperta del numero tatuato sul braccio solleva domande che però non ricevono risposte. “Di un passato così sommerso non era mai stata capace di raccontarci. Riviveva ogni giorno un inestinguibile debito con la sua memoria naufragata. La sua generazione portava il peso della colpa. Una colpa più grande del singolo individuo. La perenne colpa di essere viva…” Anni dopo Lola scopre il significato di quei numeri cercando di rintracciare e di capire i traumi di Sara e i suoi tortuosi percorsi. Vivrà per molto tempo in Israele realizzando il sogno della nonna e nel kibbutz che sarà la sua casa si trasformerà in una donna forte. Difendere e lottare per la memoria del suo popolo, per recuperare le storie dimenticate e cancellate dai nazisti sarà un compito cui dedicherà tutta se stessa. Con la figlia Luiza Lola tenterà di affrontare la propria eredità familiare e i silenzi dolorosi per superare il trauma trasmesso geneticamente e spezzare quel nucleo di dolore che ha segnato in modo indelebile la vita di tre generazioni di donne.
Giorgia Greco |
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