Putin, offensiva d'inverno Analisi di Francesca Mannocchi
Testata: La Stampa Data: 19 febbraio 2023 Pagina: 2 Autore: Francesca Mannocchi Titolo: «Donbass, offensiva d'inverno»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi 19/02/2023, a pag.2, con il titolo "Donbass, offensiva d'inverno" il commento di Francesca Mannocchi.
Francesca Mannocchi
Ludmila ha 86 anni e le gambe malconce, ma le orecchie no. Quelle, dice, funzionano bene. Così bene che oggi sa distinguere una guerra che a Bakhmut è cambiata e non suona più del rumore sordo dei colpi di artiglieria che dalle postazioni ucraine di dirigono verso quelle russe e di quello sibilante dei missili in arrivo. Oggi la battaglia di Bakhmut, che è una guerra nella guerra, ha anche il suono delle armi leggere, vuol dire che la battaglia è diventata urbana, che i soldati si confrontano quartiere per quartiere e strada per strada. Due giorni fa la cittadina contesa da mesi si presentava così, l'aria pungente dell'inverno, il bianco della neve a coprire chilometri di macerie e tracce di vita, e il suono delle armi che si fanno sempre più vicine. Ludmila è nata nel 1942, durante una guerra che man mano che cresceva le raccontavano con l'orgoglio di chi aveva liberato un pezzo di mondo dal male, dai nazisti. Ma pensa che morirà durante un'altra guerra che nessuno le spiega e, anche quando ci provano, lei non la capisce. È arrivata a Bakhmut nel 1960, mandata qui dopo l'istituto tecnico da quella che oggi è la Federazione Russa e allora era l'Unione Sovietica. In Donbas c'era bisogno di lavoratrici e lavoratori e lei faceva parte del grande progetto di costruzione dello Stato, della produzione per la comunità. Ha cominciato a lavorare in una fabbrica di mattoni, si è sposata e le hanno assegnato un appartamento in cui vive da 47 anni: «Sono qui con mio marito dal giorno della consegna dello stabile». L'hanno inaugurato, lì sono nati i loro figli, è lì che aspetteranno la fine della guerra o la fine della vita. Hanno lavorato insieme per 41 anni nella stessa fabbrica, oggi la loro pensione sarebbe di 3.900 grivnie, più o meno 92 euro ciascuno. Poco o niente che sia non possono ritirarla perché il primo punto per avere i soldi sarebbe Chasiv Yar, e arrivarci per loro è impossibile. I loro dirimpettai sono andati via prima dell'estate, quando la città ha cominciato a essere attaccata più massicciamente, tre mesi a Dnipro e poi sono tornati indietro. I soldi di chi vive qui, nel Donbas, sono troppo pochi anche per essere sfollati. «Ci raccontano che siamo un unico Paese - dice Oleksandra, in piedi, nervosa accanto a lei -, ma a unirci non è rimasto che il destino di chi vive in guerra». I colpi degli ultimi giorni hanno frantumato i vetri del quarto e quinto piano, anche quelli del suo appartamento. Lei nello scantinato non scende perché suo marito è invalido, non vuole essere evacuato e non vuole essere trasportato nell'umidità della cantina. Se deve morire, dice come tutti quelli che restano, sarà tra le mura di casa sua, che però tremano ogni giorno di più. Alle quattro del pomeriggio la luce si fa piano piano più cupa, il suo vicino Oleh esce dal rifugio con due bacinelle per raccogliere la neve, lasciarla sciogliere e cucinare, mettere sulla stufa una pentola per una zuppa, sciacquare i panni che si lavano poco, solo quando serve. Al mattino due vicine avevano provato a raggiungere un punto di distribuzione dell'acqua, ma i colpi erano così vicini che sono tornate indietro e a mani vuote. Per l'acqua non si può morire, certo. Ma senz'acqua si può morire altrettanto certamente. Dal secondo piano una donna si affaccia da una finestra che non c'è più e grida di andare via, grida la stanchezza di chi non sa dove andare, grida più forte perché sa di non essere ascoltato o di essere comunque frainteso in una terra che era e resta la terra di mezzo di questa guerra, di quella che l'ha preceduta, della vita prima del 2014 quando la guerra non c'era ancora. Terra di mezzo, di tutti e di nessuno, come tutte le terre di confine. Ludmila per un po' l'asseconda e tace, il collo stretto nella giacca, le mani al caldo. Mancano le scarpe, mancano i cappotti, mentre cambiano le stagioni e Bakhmut entra nel settimo mese senza luce e senza gas, solo che d'estate si sopravviveva, a meno 10 si rischia di morire assiderati. L'uomo che le siede accanto, a differenza sua, è di poche parole. Stretta in fronte una torcia per fare luce nella vita di sotto, la vita dei rifugi. La prossima volta che tornate portate almeno le batterie, dice, le sigarette e le batterie. Poi si alza, prende lo slittino, le sue due bacinelle e aiuta Oleh a raccogliere la neve, nell'inverno medievale della guerra del Donbas. Dai palazzi di fronte sale fumo, la mattina è stata dura. Un attacco sulle zone residenziali ha ucciso cinque persone e ne ha ferite nove. È la prima immagine all'entrata del paese: un palazzone in fiamme, un'automobile colpita che porta ancora la scia del sangue del corpo che da lì è stato estratto, due donne zitte sotto a osservare e, a poca distanza, un'anziana che urla solo: «Basta». Come se non sapesse cosa aggiungere, come se non sapesse identificare il nemico, ammesso che - dopo mesi sotto attacco - un nemico serva ancora. Ogni mattina, da settimane, le sorti di Bakhmut sembrano dettare la temperatura della guerra sul fronte orientale. Ieri la situazione sembrava stabile, i rapporti dell'Institute for the Study of War che monitorano quotidianamente avanzate e ritirate dei due eserciti, davano il villaggio di Krasna Hora ancora saldo sotto il controllo di Kyiv, con un apparente cambio della guardia nelle file russe. Più soldati del ministero della Difesa, meno mercenari della Wagner, dopo che il fondatore Prigozhin ha ridimensionato le conquiste, lamentando di non ricevere abbastanza munizioni da Mosca. Nella zona a Sud-Ovest di Kreminna gli ucraini tengono le posizioni, dove i russi stanno concentrando le forze e attaccando verso Hrianykivka e Synkivka, insediamenti talmente piccoli che è persino difficile definirli villaggi. È la fredda contabilità della guerra fatta di numeri, mappe su cui colori diversi - blu e rosso - marcano il confine tra le zone occupate e quelle liberate. Con i dati, però, bisogna tirare le conclusioni, ed è ormai ovvio che Bakhmut sia il simbolo di un'offensiva d'inverno che parla di ciò che manca a entrambi gli eserciti in campo. Gli ucraini, che stanno difendendo la città con perdite enormi di uomini, sono ormai a corto di munizioni e si adattano a combattere col poco che resta, i russi hanno dimostrato (ancora una volta) di aver fatto male i conti, o di aver puntato sul cavallo sbagliato (leggasi i mercenari della Wagner). Gli ucraini potrebbero ritirarsi e riorganizzarsi, ma dopo mesi di perdite è difficile accettare di lasciare le posizioni a chi ha fatto riempire centinaia di sacchi di cadaveri, allo stesso tempo è complicato continuare a combattere per un pezzo di terra su cui la Russia sta applicando il solito copione: quello che non si riesce a conquistare facilmente si rade al suolo. L'ha ammesso di recente Alexander Khodakovsky, comandante sostenuto dal Cremlino, ex leader politico nell'autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk. Parlava del destino di Mariupol, auspicando la medesima cose per Vuledhar, l'altra battaglia nodale del fronte Est. L'unica tattica che funziona, per le forze russe, è distruggere: «Demoliamo tutto quello che abbiamo davanti e che il nemico può usare per nascondersi, non abbiamo altra scelta». A Vuhledar, però, l'assalto non solo è fallito ma è costato ai russi due delle brigate d'élite dell'esercito, la 155ª e la 40ª brigata di fanteria navale, che sono state decimate. L'esercito ucraino lì ha dimostrato che si possono tenere a bada i russi, ma che per farlo c'è bisogno di armi, tante e in fretta. È quello che serve anche per Bakhmut, le cui sorti non cambieranno la guerra né dal punto di vista operativo né da quello strategico, aumentando il rischio che la battaglia delle battaglie sia una battaglia inutile. Anche Vova due giorni fa voleva prendere l'acqua al punto di distribuzione, poi sono arrivati i missili, un frammento gli ha colpito un piede, e quando è cessato il sibilo si è rialzato da terra, ha preso il bottiglione che era riempito solo a metà ed è tornato a casa. Voleva tirare l'acqua fuori dal pozzo, ma si è rotta la corda e non ne altra per sostituirla, così l'acqua resta nel pozzo e a lui, come a Ludmilla e i suoi vicini non resta che raccogliere la neve e aspettare che si sciolga. I suoi vicini per mesi hanno gestito un gruppo di volontari che portava via malati e anziani da Bakhmut verso la vicina Kostyntynivka, poi la settimana scorsa anche casa loro è stata colpita, le schegge di un missile hanno distrutto il soffitto della cucina, ferito una donna, e così i vicini hanno fatto le valige e andranno via anche loro, che aiutavano gli altri a sopravvivere. Vova ha imparato quali strade può percorrere e quali no, gliel'hanno detto i soldati al check point. «Non è più come prima, oggi rischi di girare l'angolo e incrociare i russi». Perciò esce il meno possibile, la cantina di pochi metri quadrati dove teneva le conserve è la tana in cui passa la notte col suo cane. Dice che la guerra per lui oggi è riconoscere i suoni, dall'intensità dei colpi riesce a immaginare da dove arrivino e dove andranno a cadere, se sulla diga, le condutture, in centro città. Capisce se l'artiglieria è oltre la collina e in quale quartiere si sparano a vista. Sul tavolo della cucina ha un piccolo generatore, accanto al divano una radio. La stazione è russa e la voce, solenne come quella di tutti i regimi, diffonde successi che non ci sono. Eroi russi che stanno avanzando in Donbas, le sorti scritte di un'inevitabile vittoria. Vova ascolta, risponde a una domanda non posta: si sente solo qui, non arrivano altre informazioni. Poi guarda fuori dalla finestra e indica: la settimana prima, pochi civici più in là, è morta una famiglia intera - madre, padre, due figli - è stata uccisa da un razzo. Da quella finestra la vittoria della radio non si vede. Si vedono macerie di Bakhmut, della battaglia che non cambierà le sorti della guerra ma che ha trasformato una città in un cimitero.
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