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'I bambini di Haretz', di Rosa Ventrella
A cura di Giorgia Greco
Mondadori
euro 18
“….la memoria custodisce ciò che sceglie di custodire. Come il sogno, anche la memoria cerca di attribuire agli eventi un qualche significato” (Aharon Appelfeld) L’infanzia calpestata, l’innocenza violata, giovani vite strappate al futuro sono fra i peggiori crimini commessi dai nazisti nel loro progetto di sterminio del popolo ebraico. Bambini a cui è stato impedito di crescere circondati dall’affetto di una famiglia, privati della fiducia nell’essere umano: cosa può esserci di peggio che sottrarre il futuro a un bambino?
Fra le storie di bambini ebrei rimasti orfani dopo la deportazione dei genitori, costretti a rifugiarsi in cantine o solai, a vagare da soli per mesi nei boschi cercando di sopravvivere in condizioni disperate spicca il romanzo di Rosa Ventrella edito da Mondadori con il titolo “I bambini di Haretz”. E’ il racconto di una pagina di Storia poco conosciuta tratto da una vicenda realmente accaduta che l’autrice scopre per caso, leggendo un giornale locale in cui si raccontava del passaggio a Cremona di alcuni bambini provenienti dal campo di Selvino, prima del viaggio che li avrebbe condotti nella Terra Promessa.
Voce narrante è Margit Langer di 12 anni che vive insieme ai genitori e al fratellino Janos in una cittadina cecoslovacca sulle rive della Svitava. Il padre ha una bottega di orafo, la mamma dipinge, Margit e il piccolo Janos giocano nei boschi, pescano al fiume, dipingono e sognano come tutti i bimbi della loro età. Siamo nel 1939. La vita tranquilla di questa famiglia si spezza all’improvviso con l’invasione nazista di Praga e le persecuzioni contro gli ebrei che ne seguono: i negozi bruciati, l’impossibilità di frequentare la scuola, la stella gialla da apporre sui vestiti, le violenze per le strade, i rastrellamenti. Prima di essere arrestati i Langer chiedono alla famiglia Roth di proteggere i loro figli ma non possono impedire a quelle creature di vedere, nascosti in un mobile, la violenza perpetrata sulla madre dai nazisti. Come può l’animo di un bambino rimanere incontaminato dopo aver assistito a un simile trauma? La soluzione di rifugiarsi dai vicini non è praticabile a lungo perché i signori Roth temendo per la loro vita (nascondere ebrei era “Verboten”) senza troppi scrupoli invitano Margit e Janos a lasciare la soffitta dove avevano trovato un nascondiglio e li indirizzano verso la Svizzera.
Margit non sa neppure dove sia la Svizzera sulla carta geografica, Janos vorrebbe andare a Parigi, città amata dalla madre ma anche quel sogno, un modo per tenersi ancorati a un passato felice, si rivela ben presto impraticabile. Quello che si spalanca dinanzi agli occhi dei due bambini è un mondo da incubo: “…ci tuffammo nel fitto dell’erba che oscillava. A quel punto iniziava il buio. La sera si era fatta densa e si stava alzando il vento. Un vento gelido che aveva l’odore del fiume che scorreva vicino e dei giunchi che gli crescevano intorno”. Consapevole di dover proteggere il fratellino Margit è terrorizzata, teme gli animali notturni, le grida gutturali dei nazisti che pattugliano le strade, il gelo che penetra nelle ossa e si chiede come riuscirà a sfuggire a un destino di morte.
Insieme intraprendono un viaggio pericoloso per sfuggire alla soluzione finale e alla malvagità di persone che non esitano a denunciare anche dei bambini, consapevoli di destinarli alla morte. Creature che in un’altra epoca avrebbero trascorso le giornate fra la scuola e gli svaghi dell’infanzia si trovano a imparare a cacciare per sfamarsi, a raccogliere sterpi per fabbricarsi ripari di fortuna, a centellinare l’acqua quando scarseggia, a proteggersi reciprocamente come membri di una stessa famiglia. Non mancano fra di loro i ribelli, i deboli, i malati e quelli che traumatizzati dalle violenze subite non riescono più a parlare: quello che li unisce è la forza della disperazione e la volontà di vivere!
Leggendo queste pagine sconvolgenti che si avvalgono di una scrittura raffinata, di forte impatto emotivo, a tratti cruda e immediata, il pensiero vola alle opere del grande scrittore israeliano Aharon Appelfeld anche lui scampato alla Shoah che ha raccontato nei suoi libri, in particolare in “Storia di una vita”, la drammatica esperienza di bambino costretto a vagare per anni nei boschi, cibandosi per sopravvivere di quello che la natura offriva, preda di criminali comuni, con l’incubo di essere catturato e deportato nei campi di sterminio. E’ in quella scuola di vita che ha conosciuto l’odio, la brutalità, la generosità, “tutti i sensi dell’essere umano”.
Il lungo peregrinare di Margit e dei bambini sopravvissuti alle insidie della foresta è destinato a concludersi a Selvino sulle Alpi bergamasche nella colonia di Sciesopoli, dove un gruppo di militanti della Brigata ebraica guidati da Moshe Ze’iri, membro della Compagnia Solel Boneh e chiamato a dirigere la colonia, ha saputo trasformare quel luogo in un “kibbutz formativo” con lo scopo di accogliere centinaia di piccoli sopravvissuti alla guerra e ai campi di sterminio per condurli nella loro patria in Eretz Israel.
Nelle ultime pagine apprendiamo il percorso di vita di Margit, sposata e con figli adulti, che ha sempre nascosto a tutti il suo passato doloroso ma a un certo punto accoglie l’invito di recarsi in Italia assieme ad altri ospiti della colonia di Sciesopoli per fare i conti con la memoria e cercare di sciogliere “quel grumo secco e duro, appallottolato nel ventre, una specie di malinconia latente che mi sta sempre accanto e mi accompagna qualunque cosa faccia”. “Ricordare mi fa male, pensare ai bambini che eravamo riapre un’enorme voragine, eppure continuo a credere che sia giusto essere qui…”
“Scrivere questo romanzo – afferma l’autrice – è stato un lavoro lungo, complesso in termini di ricostruzione storica, straziante, ma nello stesso tempo la definirei l’esperienza più entusiasmante che abbia mai vissuto come scrittrice”. Giorgia Greco |
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