L'intervista di Haaretz a Sharon Riportiamo anche l'editoriale di Fiamma Nirenstein su La Stampa e un commento di Federico Steinhaus
Testata: La Stampa Data: 14 aprile 2003 Pagina: 1 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «La svolta di Israele»
Riportiamo l'articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa lunedì 14 aprile 2003 insieme all'intervista di Ari Shavit ad Ariel Sharon uscita su tutti i giornali italiani,uscita su Haaretz domenica 13 aprile 2003. Informazione Corretta pubblica anche un commento all'intervista di Federico Steinhaus. Quando una guerra finisce si dicono molte belle parole, e per cancellare la pena si enfatizza volentieri l’avvento di una nuova era. Ma stavolta una piccola porta aperta segna davvero la strada nuova in cui il Medio Oriente sta per entrare.
Il post Saddam comincia con una profferta di pace di Ariel Sharon, che può essere sottovalutata solo da chi guardi all’area con gli stessi occhiali con cui prevedeva un terremoto generale in tutto il mondo arabo, una rabbia foriera di disastri terribili. Le dichiarazioni di Sharon sono importanti per motivi generali e particolari.
Quelli particolari: il premier israeliano annuncia la disponibilità a sgomberare territori per procedere a un accordo di pace che comprende la nascita di uno Stato Palestinese, purché, dice, non si debba rinunciare alla sicurezza. Sharon chiama per nome luoghi che sono «la culla del popolo ebraico» come Shiloh, Beit El, luoghi biblici, che dall’Intifada nessuno osa nominare parlando di sgombero. Un messaggio interno fortissimo. L’ha colto subito Ziad Abu Ziad, che dice: «Dobbiamo smettere di criminalizzare Sharon, e vederlo nella sua realtà di primo ministro eletto democraticamente».
Ma le radici dell’uscita di Sharon sono la cosa più seria. Fra queste, certo, il desiderio di sostenere la politica di Bush, ma più ancora il senso di potere, oggi, cominciare a parlare di sicurezza per Israele, sia pure embrionalmente. Il mondo mediorientale ha visto che le dittature, che abbisognano intrinsecamente di un nemico da odiare, non sono eterne. Qualcosa si muove. Da ieri il ministro delle Finanze palestinese Salam Fayad, invece di passare gli stipendi degli uomini armati ai capi delle varie fazioni della polizia, pagherà i salari tramite banca: è un colpo alle milizie personali. Fayad ha battuto Arafat, che non voleva. Un segnale importante.
In secondo luogo, il terrorismo e l’accumulo di armi, nonché l’incitamento all’odio di Stato, che li esaltano, appaiono poco redditizi. Inoltre non perverranno più da Saddam i 25 mila dollari a famiglia di «shahid» palestinese. Tutta l’area ha ricevuto un segnale sulla sorte che può subire una dittatura armata e amica del terrore. A Gerico armi rubate sono state restituite a Israele dall’Autonomia Palestinese. E Sharon si espone all’ira dei settler. Il dopoguerra ce ne mostrerà delle belle. Riportiamo il commento di Federico Steinhaus
In questi giorni si parla nuovamente di Israele, di Sharon, dei palestinesi. Si accenna al nuovo governo palestinese che forse nascerà e forse no, al fatto che sulla sua composizione e sui suoi poteri è in atto uno scontro fra il primo ministro Abu Mazen ed Arafat. Ma si parla ancor più di Sharon, della sua dichiarata disponibilità a cedere alcuni insediamenti in cambio della pace: se ne parla con meraviglia, come se fosse una svolta epocale, dimenticando che Sharon dichiara questa disponibilità da due anni e mezzo, e che in cambio chiede soltanto sicurezza per gli israeliani e riconoscimento per Israele del diritto ad esistere. Haaretz ha pubblicato il 13 aprile una lunga intervista rilasciata da Sharon. Sharon ha appena terminato di spiegare che Iran, Libia ed Arabia Saudita stanno tentando da anni di accedere alla tecnologia nucleare, hanno solidi legami con il terrorismo palestinese, e costituiscono una potenziale minaccia che è certamente molto meno grave ed immediata di quella che era rappresentata da Saddam, ma tuttavia non va sottovalutata.
Accennando al quadro politico di un possibile accordo con il mondo arabo, Sharon afferma che "esso obbliga all'assoluta cessazione dell'incitamento (al terrorismo) ed allo smantellamento di tutte le organizzazioni terroristiche. In queste condizioni, è possibile raggiungere un accordo. A proposito del primo ministro palestinese Abu Mazen, Sharon afferma che egli "comprende che è impossibile sconfiggere Israele col terrorismo".
Riportiamo la versione integrale dell'intervista. Primo ministro Sharon, siamo a un momento storico sorprendente. Intorno a noi la realtà cambia radicalmente. Dal suo punto di vista, la nuova realtà del Medio Oriente dopo la caduta dell’Iraq è promettente o pericolosa? Per Israele, è buona o cattiva? «La leadership irachena era orribile e omicida. Già una ventina d’anni fa aveva realizzato che sarebbe stato impossibile acquistare una bomba islamica, e allora aveva cominciato a fabbricarsela. Pertanto la rimozione dell’Iraq come una minaccia è di assoluto sollievo. Tuttavia, ciò non significa che tutti i problemi che stiamo affrontando siano stati rimossi. L’Iran si sta adoperando per produrre armi di distruzione di massa e si è impegnato a realizzare missili balistici. La Libia sta compiendo un grande sforzo per acquisire armi nucleari. Ciò che sta accadendo in questi Paesi è serio e pericoloso. Anche in Arabia Saudita c’è un regime che concede aiuti alle organizzazioni terroristiche di qui».
Sta dicendo che ciò che è accaduto in Iraq deve accadere anche, in un modo o nell’altro, in Iran, Libia e Arabia Saudita?
«Sulla questione irachena gli Stati Uniti hanno dimostrato una leadership di altissimo livello. Non credo che sia realistico pensare che, appena conclusa una campagna, ne cominceranno un’altra. Anche una superpotenza ha dei limiti. Quando vinci, in un certo senso ti trovi anche indebolito. Ma ci troviamo di fronte alla possibilità che qui inizi un diverso periodo. La mossa in Iraq ha provocato uno shock nel Medio Oriente e racchiude in sé una potenzialità per grandi cambiamenti. Abbiamo l’opportunità di costruire un diverso rapporto tra noi e gli Stati arabi e tra noi a i palestinesi. Questa occasione non deve essere trascurata. Ho intenzione di esaminare queste situazioni con la massima serietà».
Pensa che vi sia la speranza di raggiungere un accordo in un futuro prevedibile?
«Dipenderà in primo luogo e principalmente dagli arabi. Un accordo costringe a un diverso tipo di governo: lotta al terrorismo e una serie di riforme. Costringe allo smantellamento di tutte le organizzazioni terroristiche e alla cessazione della loro istigazione. Ma se ci sarà una leadership che capirà queste cose e che le applicherà con serietà, esiste la possibilità di raggiungere un accordo».
Considera Abu Mazen un leader con il quale sarà in grado di raggiungere un accordo?
«Abu Mazen capisce che è impossibile vincere Israele con il terrorismo».
Un giorno molto vicino il telefono potrebbe squillare e il presidente degli Stati Uniti potrebbe dirle: «Arik, ho rimosso una minaccia all’esistenza di Israele, sto realizzando una rivoluzione nell’area. Ora è giunto il momento del tuo contributo. Cedi l’insediamento di Netzarim».
«Vi sono alcune materie sulle quali saremo pronti a compiere mosse lungimiranti, a fare passi molti dolorosi. Ma c’è una cosa che ho ripetuto diverse volte al presidente Bush: c’è una questione sulla quale non ho mai fatto concessioni in passato e non le farò né ora né mai: tutto ciò che riguarda la sicurezza di Israele. Ho spiegato e chiarito che questa è la responsabilità storica che ho nei confronti del futuro e del destino del popolo ebraico. Saremo noi a decidere che cos’è pericoloso per Israele e che cosa non lo è».
E allora cosa mi dice di Netzarim?
«Ora non voglio addentrarmi in una discussione su alcun luogo specifico. E’ una questione delicata e non è necessario parlarne troppo. Ma se verrà fuori che abbiamo qualcuno con cui parlare e che capisce che la pace non è il terrorismo e neanche la rivolta contro Israele, allora decisamente sosterrò che dovremo compiere passi che sono dolorosi per qualunque ebreo e per me personalmente».
«Dolorose concessioni» non è un’espressione vuota?
«Assolutamente no. Proviene dal profondo della mia anima. Guardi, stiamo parlando della culla del popolo ebraico. Tutta la nostra storia si è svolta all’interno di questi luoghi. Betlemme, Silo, Beit El. E so che dovremo rinunciare ad alcuni di questi luoghi. Vi sarà una separazione da luoghi che sono legati con tutto il corso della nostra storia. Come ebreo, questo mi tormenta. Ma ho deciso che farò tutti gli sforzi necessari per raggiungere un accordo. Sento che la necessità razionale di arrivare ad un accordo è superiore ai miei sentimenti».
Lei ha creato gli insediamenti e li ha sostenuti. Ora è pronto a considerare lo sgombero di quelli isolati?
«Se raggiungeremo una situazione di vera pace, dovremo fare dolorose concessioni. Non in cambio di promesse, ma della pace».
Alcuni si aspettano che lei sia un De Gaulle israeliano: un leader nazionale, un generale, che a un certo punto capisce che la realtà è cambiata e gira le spalle a parte della sua storia creando una svolta storica radicale. Ha questo tipo di aspirazioni?
«Nel paragone con De Gaulle bisogna tenere in mente una cosa: l’«Algeria» è qui. Non dista qualche centinaio di chilometri. Qui il livello di prudenza necessario è perciò molto più elevato».
Ma le sto chiedendo: vuole essere ricordato come l’uomo di punta di questo cambiamento radicale?
«Mi permetta di dirle una cosa: sono determinato ad arrivare a un accordo vero. Credo che chiunque abbia visto quella cosa straordinaria chiamata Stato di Israele nel suo sviluppo, forse capisca di più le cose e sappia meglio come arrivare a una soluzione. Per questo credo che il compito spetti alla mia generazione, che ha avuto il privilegio di vivere nel corso di uno dei più drammatici periodi nella storia del popolo ebraico. Ho 75 anni. Non ho altre ambizioni politiche oltre al ruolo che rivesto ora. Il mio obiettivo è guidare questa nazione alla pace e alla sicurezza».
Lei ha veramente accettato l’idea di due Stati per due popoli?
«Credo che questo sia ciò che accadrà. Bisogna vedere le cose con realismo. Alla fine ci sarà uno Stato palestinese. Vedo le cose prima e soprattutto dalla nostra prospettiva. Non credo che noi dobbiamo dominare un altro popolo e guidare le loro esistenze. Non credo che abbiamo la forza di farlo. E’ un fardello molto pesante, fa sorgere problemi etici e ha pesanti implicazioni economiche».
Tuttavia, sotto la sua leadership Israele è tornato a controllare direttamente le città palestinesi.
«La nostra permanenza a Jenin e a Nablus è temporanea. Siamo lì per protegger i cittadini israeliani dal terrorismo. Non è una situazione che possa durare a lungo».
Nel passato ha parlato di un accordo ad interim di lungo periodo. Non crede in una soluzione permanente e nella fine del conflitto?
«Penso che ora siano state create opportunità che non esistevano nel passato. Il mondo arabo in generale e i palestinesi in particolare sono stati scossi. C’è quindi una speranza di raggiungere un accordo più rapidamente di quanto si potesse pensare».
L’elettorato israeliano l’ha scelta due volte a larga maggioranza perché voleva che respingesse Yasser Arafat e lo battesse. Lo ha fatto?
«Credo che uno dei nostri successi sia quello di aver aperto gli occhi di molte persone sulla vera natura dell’Autorità Nazionale Palestinese e sulla natura della persona che la guida, rendendo quest’ultima irrilevante. Quando in passato ho usato questa espressione ho choccato molti dei nostri sostenitori, principalmente quelli che scrivono e si esprimono. Ma alla fine, Arafat è diventato irrilevante».
Non teme di aver forse vinto la battaglia contro Arafat e contro il terrorismo ma di aver perduto sulla questione dello Stato palestinese e degli insediamenti?
«Noi abbiamo sostenuto i principi che sono stati espressi dal presidente Bush nel discorso del 24 giugno 2002. Per quanto riguarda l’ultima bozza del piano, nutriamo 14 o 15 riserve e le abbiamo espresse alla Casa Bianca».
Quali sono?
«La questione principale per noi è la sicurezza. Sulla questione terrorismo non vi sono punti di vista diversi ma un diverso approccio nella scrittura del testo. La seconda questione è quella delle fasi di applicazione dell’accordo, la terza riguarda il diritto di ritorno.».
La sua volontà di riconoscere uno Stato palestinese è condizionata al ritiro da parte dei palestinesi della loro richiesta del diritto di ritorno?
«Se ci sarà mai la fine del conflitto, i palestinesi dovranno riconoscere al popolo ebraico il diritto a una patria e all’esistenza di uno Stato ebraico indipendente nella patria del popolo ebraico».
Sarebbe pronto a congelare le costruzioni negli insediamenti e a evacuare gli avamposti illegali come parte del primo stadio?
«E’ una materia delicata. Se ne discuterà nella fase finale delle trattative. Non è questo il momento di parlarne».