venerdi 22 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
01.02.2023 L'Anp non è affidabile
Analisi di Daniele Raineri

Testata: La Repubblica
Data: 01 febbraio 2023
Pagina: 15
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «La polveriera Jenin: 'L’Anp non è affidabile per questo spariamo'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 01/02/2023, a pag. 15, la cronaca di Daniele Raineri dal titolo "La polveriera Jenin: 'L’Anp non è affidabile per questo spariamo' ".

Festival Internazionale del Giornalismo
Daniele Raineri

JENIN — Il raid dei soldati israeliani nel campo palestinese di Jenin è cominciato quando faceva ancora un po’ di buio, prima delle sette di mattina di sei giorni fa. Sono scesi da alcuni furgoni civili senza finestrini – uno era per il trasporto del latte – hanno risalito un vicolo dietro le case dove passa una macchina per volta fra muri di cemento e serbatoi in plastica dell’acqua. Hanno circondato una palazzina bianca, hanno gettato una granata e hanno urlato ai quattro che erano dentro di arrendersi. «Ma i miei vicini dicono che i soldati erano già arrivati durante la notte, erano entrati nelle case qui intorno, avevano detto alla gente di radunarsi in una stanza sola, di sedersi per terra e di stare zitta», dice a RepubblicaUmm Yousef, proprietaria del negozio davanti alla palazzina. Indica nelle quattro direzioni. «Avevano preparato tutto in anticipo, si erano piazzati sui punti più alti. Erano su quel tetto, erano in quell’appartamento all’ultimo piano, hanno sparato anche da quella piccola finestra». Parlavano fra loro in arabo o in ebraico? «In ebraico. Io dopo le prime esplosioni mi sono gettata sul pavimento con le mie due figlie e non ci siamo alzate fino a quando non è finita. È durata tre ore, fino alle dieci». La palazzina è nel cuore del campo di Jenin, un alveare di edifici addossati gli uni agli altri pieno di ragazzini e di scooter. Ci abitava una signora anziana, nonna di un combattente delle Brigate dei martiridi al Aqsa, un gruppo armato legato al partito Fatah che governa i territori palestinesi. Quella notte però nella casa c’erano tre membri di un altro gruppo, le fonti israeliane sostengono che si trattasse della Jihad islamica e che stessero pianificando un attentato, e un quarto è arrivato per visitarli. Non si arrendono, cominciano a sparare. I soldati rispondono. Si svegliano tutti nel raggio di chilometri. Fra il campo e la città ci sono circa cinquantamila palestinesi, sono insaccati in fondo ai Territori – dove è necessario fare più strada per arrivare. Fanno anche da serbatoio di reclute per i nuovi gruppi di giovanissimi che non fanno dormire l’Autorità palestinese, come le Brigate Jenin oppure la Fossa dei Leoni a Nablus, a tre quarti d’ora di automobile. Mohammed al Shabagh è il padre di uno dei quattro ricercati uccisi, tiene per mano la nipotina Ailuul (in arabo: luglio) di quattro anni con gli occhi arrossati, vengono ogni giorno a vedere le rovine della palazzina. Dice che suo figlio aveva ventitrè anni e faceva il gommista, che aveva due bambine e un terzo in arrivo, “si era unito agli altri cinque mesi fa”. Due settimane fa, spiega a Repubblica, l’Autorità palestinese aveva detto al figlio che era ricercato per terrorismo dagli israeliani e che doveva essere arrestato, ma lui aveva risposto di no. «E così gli israeliani sono venuti aprenderlo». In teoria fra l’Autorità palestinese e Israele esiste un meccanismo chiamato coordinamento della sicurezzaper scambiarsi informazioni e gestire assieme la minaccia dei gruppi armati nei Territori. In pratica finisce così: l’Autorità avvisa i ricercati, gli israeliani cercano di recuperare con i raid. Le squadre israeliane dell’antiterrorismo basano queste operazioni sulla rapidità, entrano, catturano e poi escono prima che i palestinesi riescano a montare una reazione. Quella mattina però la copertura salta, restano bloccati, cominciano ad arrivare combattenti da ogni direzione, parte una battaglia urbana fra le case, arrivano altri soldati israeliani per impedire che quelli dell’antiterrorismo finiscano accerchiati a loro volta. I segni sono dappertutto: ci sono raffiche di proiettili sui muri, nel parabrezza di una macchina, sull’orlo di un cornicione. Izzedin Yassin Salahat è un poliziotto palestinese ma è anche un membro delle Brigate dei martiri di al Aqsa, dorme in macchina lì vicino, quando sente gli scontri prende un passamontagna nero e il suo fucile d’assalto e comincia a sparare da dietro un angolo. Nel giro di secondi i soldati israeliani lo centrano da un tetto, si accascia e muore. Sono sistemati ai piani alti per impedire che i combattenti palestinesi arrivino a colpire alle spalle la squadra che sta combattendo per prendere la palazzina. A un centinaio di metri, Kifaya Omar Obad sale le scale della palazzina per andare all’ultimo piano a raccontare a sua madre Magda di 61 anni che Izzedin, che loro conoscevano da ragazzo, è morto. «I soldati israeliani erano su quel tetto laggiù – dice Kifaya aRepubblica – mia madre è salita su questa sedia di plastica per vedere fuori dalla finestra. Le hanno sparato, due proiettili, al cuore e al collo, è morta. Poi quando sono arrivati gli uomini per portarla via, gli israeliani hanno visto di nuovo movimento qui dentro e hanno sparato altri colpi». Alla fine del raid i morti palestinesi sono dieci, otto combattenti – uno è stato ucciso mentre la colonna di mezzi israeliani si districava con la forza dal campo – e due civili. Davanti alla palazzina, che nel frattempo l’Autorità palestinese ha demolito perché era pericolante e la gente continuava a entrare e uscire, c’è Abu Wahed, capo delle Brigate dei martiri di al Aqsa nel nord dei territori – «ma tu scrivi Abu Mujahid». Cosa ne pensa di questi nuovi gruppi di giovani che vogliono fare la lotta armata? «Succede perché non si fidano dell’Autorità palestinese», ci dice. Ma è una buona cosa oppure no? «Dopo venticinque anni di negoziati inutili, hanno capito che la terra ci sarà restituita soltanto con i combattimenti e con il sangue». Si va verso un peggioramento della situazione o addirittura verso una battaglia come quella qui a Jenin del 2002? «La situazione peggiora ogni giorno, è chiaro che gli scontri aumenteranno. La battaglia del 2002 è il modello che ci ispira tutti qui, i giovani ascoltano dai loro padri cosa è accaduto e vogliono ripeterlo». Da ufficiale delle Brigate deimartiri di al Aqsa: questi nuovi gruppi di giovani piacciono? «Certo che piacciono, siamo dalla loro parte». Un anziano in tuta mostra il vicolo dal quale sono arrivati i soldati. Durante le tre ore di scontri, con tutte quelle esplosioni e l’arrivo dei combattenti, l’Autorità palestinese si è fatta vedere? Allarga le braccia con un risolino. «Dormivano».

Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT