L'America? Prigioniera di Israele Dopo il "mea culpa" degli ebrei , Spinelli ci riprova inventandosi l'israelizzazione dell'America
Testata: La Stampa Data: 06 aprile 2003 Pagina: 1 Autore: Barbara Spinelli Titolo: «Le trappole dei sionisti cristiani»
Riportiamo un articolo di Barbara Spinelli pubblicato su La Stampa domenica 6 aprile 2003. Angelo Pezzana nella sua rubrica risponde alla giornalista con un articolo pubblicato lunedì 7 aprile su Libero. Da quando è cominciata la guerra delle truppe inglesi e statunitensi in Iraq si parla molto, a Gerusalemme, dell’Israelizzazione dell’America di Bush. E’ un termine coniato dall’editorialista Gideon Samet, sul giornale Ha’aretz, e descrive bene il rapporto fra le due nazioni man mano che procede la guerra per la conquista di Baghdad.
Fra le condotte dei due Stati sono apparentemente numerose le somiglianze, e una certa affinità sembra esistere anche sul piano psicologico, fra due nazioni che si sentono egualmente minacciate da un nemico che mette in forse la loro stessa esistenza: dal terrorismo kamikaze, e da forme d’odio che spesso paiono irrazionali, e in ambedue i casi sono comunque vissute come espressioni di rigetto razziale.
Anche il governo americano corre il pericolo di perdere la vittoria che sta per ottenere, così come le classi dirigenti d’Israele hanno perso successivamente la vittoria ottenuta trentasei anni fa nella guerra dei Sei giorni, e poi in maniera ancora più palese la guerra del Libano nell’82. I commentatori israeliani non si stancano di mettere in guardia l’alleato Usa: «State attenti a non agire come noi abbiamo agito in Libano» - ripetono - e cercate di capire meglio i paesi in cui entrate, le passioni che agitano la loro storia, le nascoste aspirazioni che li animano. Anche Israele fu accolta con entusiasmo dagli sciiti del Libano, quando li liberò militarmente dal dispotismo arabo-nazionalista dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina: ma poco dopo finirono col ribellarsi a quella che presto non fu più interpretata come liberazione, ma come occupazione.
Il governo di Begin voleva ridisegnare il Medio Oriente e insediare a Beirut un governo amIco, proprio come oggi desidera Bush. Ma il premier cristiano-maronita Bashir Gemayel venne assassinato da agenti siriani, pochi giorni dopo esser nominato grazie all'intercessione di Israele, e il figlio Amin Gemayel deluse il governo Begin. Contemporaneamente, nel settembre ‘82, vi fu il massacro di civili palestinesi a Sabra e Chatila, commesso da milizie cristiane con la complicità dei soldati di Sharon. Alla fine gli estremisti sciiti che avevano tanto applaudito i liberatori dettero vita alla più micidiale delle organizzazioni anti-israeliane: il gruppo terrorista dei Folli di Dio, gli Hezbollah. Ha detto una volta Henry Kissinger che Israele non ha una vera politica estera ma solo esigenze di politica esterna, e spesso questa caratteristica sembra dominare anche il comportamento del governo Bush.
Ancor più spettacolare è l’affinità che sembra esistere sul piano spirituale e culturale, fra Israele e una parte consistente del conservatorismo cristiano americano. E’ un’affinità che risale agli anni in cui il Likud di Menahem Begin consolidò il proprio potere, nei primi Anni Ottanta, e nel mondo americano iniziarono a moltiplicarsi le correnti fondamentaliste e apocalittiche delle sette evangelicali. George W. Bush ha rapporti stretti con queste sette, anche se a più riprese - da quando è Presidente - ha dovuto distanziarsi dalle loro dichiarazioni anti-musulmane e anti-arabe. Il cristianesimo cattolico è in forte conflitto con il loro radicalismo, come ha spiegato lucidamente Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, su La Stampa (28-3-03).
Sono affinità messe in rilievo con frequenza da chi oggi si sente protetto dalla politica americana, e in modo speciale dal filoebraismo che sembra ispirarla. E i dibattiti ne risentono al punto da risultare non di rado infecondi, anche in Italia: se sei amico degli ebrei non puoi che appoggiare l’America; e se critichi l’America, sei sospettabile di antisemitismo. Ma queste somiglianze tra America e mondo ebraico possono divenire una trappola mortale per Israele, qualora i suoi dirigenti si aggrappassero a esse con eccessiva fiducia e compiacimento. In primo luogo possono divenire una trappola politico-religiosa, perché il fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti è solo strumentalmente e provvisoriamente filo-israeliano, filo-ebraico.
Nella visione apocalittica delle sette evangelicali, lo Stato d’Israele deve esistere e grandemente espandersi affinché siano create le condizioni del Secondo Avvento di Gesù: un avvento che comporterà tuttavia la fine dello Stato d’Israele, la conversione in massa degli ebrei, e il loro sciogliersi definitivo nel cristianesimo che trionferà all’indomani dell’Armageddon, la finale lotta tra bene e male.
Nelle stesse visioni, Israele è al tempo stesso condizione del ritorno messianico e figura dell’Anticristo: il diabolico nemico di Gesù «è ebreo e maschio», annuncia il tele-evangelista reverendo Falwell, e Auschwitz non è stato «altro che il preludio» del giudizio di Armageddon, secondo il reverendo Chuck Missler. Questi sono i tele-evangelisti che oggi sostengono le guerre preventive, che si dicono sionisti cristiani, e che favoriscono un’offensiva in Iraq per la difesa di una Grande Israele. Ambedue elette da Dio, la nazione americana e quella israeliana hanno un comune compito di redenzione del mondo, dicono ancora gli evangelicali, ma alla fine una delle due - la nazione terrena - sarà inghiottita dall’altra, la nazione celeste. A parole Israele è difesa. In realtà viene usata.
Tutto questo getta una luce altamente equivoca, sull'entusiasmo che Israele suscita nel nuovo conservatorismo rivoluzionario americano e in chi acriticamente lo caldeggia in Italia o Europa. La storia del fondamentalismo «cristiano-sionista», la sua predicazione, sono caratterizzate da correnti antisemite che possono tornare alla luce, se perdura l'offensiva terrorista all’America e se il dopo-guerra in Iraq si complica o degenera. Da questo punto di vista l’Inghilterra di Blair ha una visione più lungimirante, profonda. Non è traversata da correnti evangelicali, ed è più attenta - grazie all’esperienza coloniale e alla lotta anti-terrorista in Irlanda - alle possibili suscettibilità nazionali o religiose delle etnie che abitano l’Iraq: sciite, sunnite e curde.
La seconda trappola è più politica, e riguarda le trattative di pace in Medio Oriente. Il presidente Bush ha volutamente ignorato il monito di molti avversari di una guerra unilaterale - compresi avversari repubblicani come Baker, Scowcroft - e non ha ascoltato le parole di chi sconsigliava un intervento prima che fosse ripreso un fruttuoso negoziato nel vicino Oriente. Ma è probabile che la posizione della Casa Bianca muti, a guerra finita, perché alla lunga Washington non può convivere con un mondo arabo ed europeo ostile: alla lunga, le arti della diplomazia e della politica torneranno a essere indispensabili, e il peso dei fondamentalisti cristiani potrebbe diminuire dopo il cambio di regime in Iraq. L’alleanza tra Bush e Sharon potrebbe esser messa a dura prova, come già lasciano presagire le dichiarazioni di Condoleezza Rice: appena conclusa la guerra occorrerà mettersi a lavorare seriamente attorno alla realizzazione del piano di pace Usa, ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale, e avviare il negoziato in due fasi per la creazione di uno Stato Palestinese entro il 2005.
E’ importante che Blair insista con forza su questo punto, oltre che sulla futura centralità dell’Onu. Nel discorso di fine anno, il 1° gennaio 2003, il premier inglese è stato particolarmente severo: «Dobbiamo al più presto riprendere le trattative di pace in Medio Oriente, altrimenti ci renderemo davvero colpevoli della doppiezza morale di cui oggi siamo accusati». E ancora: «Dobbiamo tendere la mano al mondo arabo e musulmano, e provare a capire la collera che esso sente di fronte a una trattativa di pace che ha dimostrato di essere così lenta, dolorosa, e letale». Questo significa due cose, per Sharon: la lotta al terrorismo kamikaze è giustificata, ma Israele deve al contempo riprendere il dialogo con i palestinesi e smantellare le colonie nelle terre occupate.
Per il momento, il fondamentalismo cristiano consola Israele, la riempie d’orgoglio. Sharon si sente confortato, quando il ministro della Difesa Rumsfeld parla di «territori cosiddetti occupati». Ma le sette evangelicali americane contribuiscono alla fossilizzazione dogmatica dei dirigenti israeliani: sono potentemente anti-islamiche senza avere un piano che tuteli Israele nel lungo periodo, sono contrarie a qualsiasi accordo di pace come all'internazionalizzazione di Gerusalemme, hanno legami intensi con i coloni nei territori occupati, sono favorevoli a un’Israele che non rinunci a Gaza, alla Cisgiordania, al Golan. Solo in apparenza sono amiche di Israele. Alla lunga, sono i complici di quello che potrebbe divenire, apocalitticamente, il suo suicidio.
A meno che la guerra non si estenda a Siria e Iran, l’America potrebbe prendere le distanze da Israele più celermente del previsto. Quello sarà un giorno di amaro risveglio, per gli ebrei di Israele come per parte degli ebrei nella diaspora. Si capirà, allora, che gli amici tanto vantati erano falsi amici. Che la prudenza di Giovanni Paolo II e il suo costante richiamo all’Onu sono preferibili alla retorica del fondamentalismo cristiano statunitense, troppo filosemita per poterci fare sopra un investimento. Che il sionismo cristiano è un’insidia, tesa da chi crede con tutta l’anima nell’Israelizzazione dell’America, e nella violenza creativa delle guerre condotte in nome di Dio.
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