I check-point sono indispensabili I soldati di Gerusalemme lavorano da anni con le stesse difficoltà che i soldati americani scoprono ora in Iraq
Testata: La Stampa Data: 06 aprile 2003 Pagina: 11 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Al posto di blocco di Ramallah, dove l´odio si moltiplica»
Riportiamo un articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa lunedì 6 aprile 2003.
A Kalandia, il posto di blocco che costituisce la porta di Ramallah per chi viene da Gerusalemme, si avverte, fra il suono dei clacson e le grida dei venditori, uno strano silenzio. Il check-point è il luogo della non parola, del non ascolto. Il silenzio dei soldati israeliani accaldati e affaticati che controllano le carte d´identità dice: potresti avere un bomba sotto la maglia, siamo qui per questo, devo controllarti, poche storie. Lo sguardo della donna col velo o in blue jeans, del ragazzo in camicia azzurra, del vecchio con la kefia, del bambino, del camionista risponde: non ti credo, sei un aguzzino, vuoi solo umiliarmi, e lo fai con premeditazione. Il check-point è un pessimo investimento strategico, anche se un indispensabile blocco per il terrore. Parlando con la gente in sofferente fila, vedi che i palestinesi non riconoscono minimamente le ragioni della sicurezza israeliana, per loro è una beffa quando gli israeliani dicono: «Ognuno potrebbe essere il prossimo suicida». Non solo, per la massima parte di loro il terrorismo non va chiamato con questo nome. Quindi, la verità del check risiede per loro nella volontà di tenere i palestinesi in gabbia. Il check-point è la gatta da pelare che hanno anche gli americani in Iraq: la donna che saltando per aria ha ucciso tre soldati ad As Sayliyah, a Nord-Ovest di Baghdad, l´ha fatto a un check-point in una tempesta di sabbia come quella di ieri a Ramallah. Qui e là la temperatura si arrampica verso i quaranta gradi, tre gabbiotti di metallo con sacchi di sabbia e blocchi di cemento sono la garitta dei soldati. Ma gli americani non fanno complimenti: una civile, ancorché terrorista, li ha attaccati? Ora si spara anche da lontano alle macchine civili. Se i terroristi si nascondono dietro i bambini e le donne, agli americani e ai britannici importa soprattutto di non farsi ammazzare. Gli israeliani da anni cercano di ammorbidire i check-point, salvo casi di sporadica violenza: le auto civili arrivano vicino ai soldati, la gente carica di pacchi salvo eccezioni va diritta al controllo, tuttavia ci sono posti di blocco tristi e duri, forieri di violenza come lo è la proibizione di un diritto umano basilare, la libertà di movimento: «Sì, la gente soffre e questo per noi è un dispiacere e anche un guaio. Ma non ci siamo svegliati una mattina dicendo: facciamo dei bei posti di blocco» dice triste Shlomo, 28 anni, soldato nella riserva, professione giornalista. «I check esistono per evitare che nelle città, nei ristoranti, sugli autobus, arrivino indisturbati i terroristi suicidi. Controllare la gente che per il 90% vuole solo andare per i fatti suoi è orribile, ma il terrore è peggio. A me è capitato un uomo seduto con altri sei in un taxi e l´ho trovato su una lista di ricercati: l´ho fermato, forse ho salvato qualche vita. Mio fratello Benny, riserva anche lui, vicino a Gerico si è inquietato perché altri soldati interrogavano a lungo un pastore: quell´uomo faceva disegni molto precisi, e non artistici, della postazione militare fingendo di guardare le pecore. A decine i nostri amici hanno trovato armi, o persone sospette». A Kalandia al controllo ci sono soldati sui sessant´anni, volontari, e qualche donna: sono gentili, veloci, la fila scorre. I pochi soldati di leva invece sono nervosi, impauriti. Vedo uno di loro dare un calcio, piccolo ma intenzionale, a due pentole che un palestinese accovacciato nella polvere vende nel mercatino del check-point. Gli chiedo perché: nega l´intenzione, poi però racconta che ha perso due amici in due diversi attentati. Una soldatessa dà caramelle ai bambini. Ma non funziona. Bahya, direttrice palestinese, giovane e carina, dice: «Ero con mio figlio di dodici anni in fila. Poiché è alto, i soldati lo hanno scrutinato mettendolo assieme a un gruppo di giovani. D´un tratto l´ho visto in lontananza che piangeva. Sono corsa a tirarlo fuori gridando e mostrando il suo nome sul mio passaporto. Una soldatessa mi ha detto "bitch", puttana, e io allora le ho risposto: "Puttana sei tu"». Omar Khalaf , su una grossa jeep: «Ormai mi conoscono, ogni giorno porto cassette, dischi e materiale elettrico a Gerusalemme. Ma ieri ero con mio fratello: ci hanno fermato da lontano, fatto scendere e tirare giù tutte le valige. Lui aveva un aereo da prendere, per poco non l´ha perduto». Un elegante professionista sui 40 anni, architetto di nome Simon: «Tutti i giorni perdo ore. La sicurezza non c´entra niente: lo fanno solo per umiliarci. Un terrorista può passare dai campi, il posto di blocco è una scusa. Il check-point è parte della nostra vita di prigionieri: e non li chiami terroristi, per me agiscono per legittima difesa». Tre donne, una madre e due figli di cui una incinta, va a farsi un´ecografia a Gerusalemme: «Ho visto una volta far spogliare completamente un uomo, e poi farlo accucciare per terra. Ci tormentano». Ashad Fahmi: «Gli americani e i britannici da sempre mandano qui i loro schiavi ebrei a tenerci a bada: ora è ancora più evidente. Che c´entra il terrorismo?». Anche un guidatore dell´ambulanza della Mezzaluna Rossa, benché siano stati trovati molti esplosivi e armi nelle ambulanze, sostiene che solo la persecuzione è il motivo del check-point. Racconta che una volta un paziente di cuore è morto perché la sua macchina è stata fatta aspettare a lungo mentre correva all´ospedale. Il tempo scorre caldo e polveroso, si vendono ghiaccioli e Pepsi, vedo baracchini di bicchieri cinesi, pentole bulgare, vestiti usati, fazzoletti, e una incredibile montagna di mutande e reggipetti rossi e rosa shocking; di qua e di là dal posto di blocco si accumulano in sorta di rappresentazione dell´inferno taxi, auto private, piccoli carretti colorati che i bambini per 5 o 10 shekel (mille o duemila lire) caricano di merci dei passanti e portano correndo sotto il naso dei soldati. Un´anziana si sente male, una mamma con due bambini fa tardi ma il soldato le dice piano: «Devi stare in coda con gli altri»; un giovane con la macchina scoperta suona un disco americano ritmato a tutto volume, un camionista per l´ennesima volta guarda una soldatessa bionda piuttosto voluminosa sparire nel retro del suo veicolo per controllare che fra la sua merce (tubi di gomma) non sia nascosto qualcosa di sospetto. E il tempo scorre inutile lungo una fila sfibrata. Scorre nervoso fra i blocchi di cemento. Qualche settimana fa due soldatesse hanno fermato a un posto di blocco un´auto con dentro tre terroristi, che sono saltati per aria. Un anno fa, cinque soldati furono uccisi a fucilate dentro e intorno alle garitte. Ma i palestinesi certo pensano al loro dramma, alla rete da cui si sentono circondati, alla guerra in cui vengono uccisi tanti dei loro. Vicino a quel posto di blocco non molti giorni fa c´è stata una sparatoria in cui è stato ucciso un ragazzino palestinese. E l´ira per la limitazione della libertà di movimento si respira, e non solo: anche quando si suggerisce che se il terrore cessasse, i posti di blocco non avrebbero ragione di essere, a nessuna delle persone in coda viene in mente di colpevolizzare per questo, almeno in parte, il terrore. Lo stratega generale Avraham Rotem, oggi professore di dottrine militari all´università Bar Ilan, spiega che l´esercito sa benissimo che il prezzo psicologico dei check-point è enorme, ma che in loro assenza è impossibile fermare il terrorismo: «Per noi un soldato che siede in un check-point è un grande problema, è un "sitting duck", come si dice, un bersaglio immobile contro cui puoi lanciare qualsiasi tipo di attacco. Questa è la prima ragione per cui pensare che i check-point siano una scelta ideologica, è una follia. In secondo luogo pere noi sapere che la popolazione è umiliata è molto grave, perché questo significa simpatia popolare per chi ci odia di più, i terroristi. Ma purtroppo il check-point è indispensabile. Un attentato richiede una quantità di movimenti: portare i materiali chimici dove si fa l´esplosivo, portare gli esplosivi alla cellula che agisce, portare la cintura al terrorista, che a sua volta deve passare il check-point. In questo processo si muovono varie automobili, molte persone... Sì, in teoria si può passare dai campi. E lo si fa, ma per il terrorista, che là è solo e non in mezzo alla folla, è molto rischioso. Al check-point passano quindi mille indizi per fermare un attentato. Se non lo facciamo, il prezzo è incommensurabile». Ma a quel vecchio che con la zappa in mano vuole passare di là perché, con l´afa, deve andare a innaffiare l´orto, questo importa ben poco. E´ inaccettabile sentirsi dire «indietro» da un ragazzotto israeliano nervoso e magari maleducato, è troppo dura per un vecchio. Il vecchio pensa che il ragazzo lo odia e che è un mostro, qualche suo parente ha certo avuto una casa distrutta, o un morto durante l´operazione «Muro di Difesa»; Il ragazzo pensa ai suoi due amici morti sull´autobus, uno a Afula, uno a Meghiddo. Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. 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