Clima di paura a Mosca L’oppositore di Putin, intervista di Giovanni Boggero
Testata: Il Foglio Data: 25 gennaio 2023 Pagina: 5 Autore: Giovanni Boggero Titolo: «'Da soli contro la guerra'»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 25/01/2023, a pag. 5, con il titolo 'Da soli contro la guerra', l'analisi di Giovanni Boggero.
Grigory Alexeyevich Yavlinsky
Mosca. Il termometro segna -12°. Sotto un’intensa nevicata una bandiera verde con una mela rossa garrisce al vento. La sede di Yabloko, l’unico partito di opposizione democratica rimasto in Russia, occupa un antico palazzo della via Pyàtnitskaya, dirimpetto alla chiesa di San Clemente, uno dei due edifici ortodossi della capitale dedicati a un Papa della Chiesa cattolica. L’ingresso è presidiato dalla vigilanza, mentre l’accesso è consentito previa identificazione. Accompagnato da Yekaterina Tsalon, militante del partito, salgo al primo piano nell’ufficio di Grigory Alexeyevich Yavlinsky, settant’anni, volto noto degli anni di Gorbachëv e della prima fase dell’era post-sovietica: economista della Higher School of Economics, tra i fondatori nel 1993 del piccolo partito social-liberale della mela (in russo Yabloko, appunto), deputato della Duma di Stato (1994-2003), tre volte candidato alla Presidenza della Repubblica (1996, 2000, 2018). Da anni la sua voce non si ascolta più in televisione, ma, tra apparizioni sui pochi canali liberi online, interazioni sui social network (qui accessibili ormai solo con Vpn) e sporadici incontri pubblici, la sua attività politica non si è esaurita, nemmeno dopo l’invasione dell’Ucraina. Dopo due settimane di permanenza a Mosca, la coltre di apparente normalità che grava sulla capitale interroga sul rapporto dei russi con la guerra. L’indifferenza che pare celarsi dietro la calma che regna in città è dissimulata. “In Russia in questo momento dominano smarrimento e paura – dice Yavlinsky visibilmente preoccupato – tante persone sono contrarie alla guerra, ma non sanno che cosa fare, sono come paralizzate”. Dalla scorsa primavera la mano del Cremlino si è fatta più pesante: sono entrate in vigore nuove leggi che colpiscono chi critica le forze armate; tra gli altri, anche molti dirigenti di Yàbloko – che conserva una sparuta rappresentanza in quattro assemblee regionali, ma non alla Duma – sono stati multati, altri sono in attesa di processo, qualcuno è in galera. “Ma non c’è solo questo – dice Yavlinsky –. I principali canali televisivi sono controllati dallo Stato e comunicano lo stesso messaggio, confezionandolo in maniera diversa a seconda della platea di riferimento. Per il resto, la gran parte delle persone non ha strumenti per navigare nel mare di informazioni offerte da Internet”. Questa combinazione di paura e propaganda che avvolge la società russa dà luogo a un dibattito pubblico perlopiù sotterraneo, che si svolge in casa, anziché nelle piazze. Come in altre regioni della Federazione russa anche a Mosca, infatti, è ancora in vigore il divieto di organizzare manifestazioni in luogo pubblico, introdotto durante la pandemia dal sindaco Sergey Sobyanin. Niente marce per la pace o sfilate di protesta, quindi. Frustrazione, angoscia e rabbia si sfogano tra le mura domestiche, proprio come ai tempi dell’Unione sovietica. Ogni conversazione privata sul tema inizia con la ritrosia tipica di chi esercita autocensura: Kogdà vsë nachilòs (Quando tutto è iniziato), si sente spesso dire per riferirsi al 24 febbraio 2022. Nel merito, le argomentazioni sono ricche di contraddizioni, anch’esse frutto del mix di paura e propaganda. La diffusa consapevolezza delle menzogne del regime si mescola alla frequente ripetizione delle principali giustificazioni dell’invasione (dall’imminente attacco Nato alla Russia al genocidio delle comunità russofone nel Donbass); l’orrore per i bombardamenti delle città ucraine si affianca a una loro banalizzazione e, talora, alla loro negazione. In un’intervista di gennaio al settimanale tedesco Der Spiegel, il sondaggista e sociologo Lev Gudkòv, che dirige il Levada Center – l’ultimo istituto demoscopico indipendente del paese – ha fatto un’affermazione piuttosto forte: “I russi non provano alcuna compassione per quanto sta accadendo in Ucraina”. Non pochi osservatori hanno trovato che la frase non avesse alcuno spessore sociologico; tra essi anche Jeremy Morris, docente di antropologia e sociologia all’Università di Aarhus in Danimarca, che ha notato come la considerazione non sia, in realtà, nemmeno sostenuta dai dati che Levada pretende di aver raccolto. Più del 30% degli intervistati ritiene, infatti, di condividere una qualche, ancorché non meglio specificata, responsabilità morale per quanto sta avvenendo. Sottopongo la medesima osservazione a Yavlinsky che mi squadra perplesso: “E’ difficile condurre sondaggi affidabili in Russia. Se la fermassero per strada chiedendole nome, cognome e documento d’identità e poi le domandassero se sostiene l’operazione militare speciale lei che cosa risponderebbe? In ogni caso, viste le condizioni in cui siamo, se il 30% ritiene di doversi assumere una qualche responsabilità, direi che non è affatto poco. A questo proposito, aggiungo che in un paese di antiche tradizioni e di grande cultura dell’Europa occidentale [la Germania, ndr], fino alla metà degli anni Settanta non c’era alcuna consapevolezza di quanto fosse successo prima e, poi, durante la II guerra mondiale. Quindi che cosa pretendete da un paese come questo, in cui al momento regnano propaganda e paura?”. Non resta che cercare di capire per quali ragioni un simile stato di cose sia diventato possibile. Qui Yavlinsky snocciola le tesi che sono ormai da tempo il suo cavallo di battaglia: “All’origine del ‘sistema-Putin’ ci sono gli anni Novanta. Da un lato, una giusta, ma troppo rapida transizione all’economia di mercato, avvenuta con privatizzazioni criminali che sono servite, in realtà, a cementare il potere pubblico di una ristretta cerchia di persone; questa unione di potere e proprietà e la complicità della quasi totalità dell’intellighenzia post-sovietica, ha escluso la garanzia di una stampa libera, di una giustizia indipendente, di un’opposizione parlamentare funzionante e di un mercato concorrenziale. Dall’altro lato, in quegli stessi anni lo Stato non ha incoraggiato alcuna riflessione critica sulla Rivoluzione d’Ottobre, sul passato bolscevico e, in particolar modo, sul regime staliniano. Per questo doppio ordine di ragioni, appena si è insediato Vladimir Putin nel 2000 il sistema oligarchico-corporativo era già bell’e che apparecchiato per un ritorno al passato”. Ascoltando Yavlinsky tornano alla mente le tesi dello storico Richard Pipes, secondo il quale il regime totalitario dell’Unione sovietica e prima ancora dell’Impero zarista si fondavano su un sistema di governo patrimoniale che teneva indistintamente unite autorità pubblica e proprietà. Paiono adatte a descrivere anche l’evoluzione degli anni Novanta. Al proposito, però, Yavlinsky non risparmia una stoccata all’Occidente e in particolare agli Stati Uniti che, lungo tutto quel decennio, hanno sostenuto il corso di Boris Eltsin, anche quando era ormai chiaro che la “terapia d’urto” avesse avuto molti difetti e il percorso di modernizzazione si fosse interrotto. A questo punto chiedo, però, conto a Yavlinsky del suo sostegno a Eltsin nel 1993. “Io – spiega – avevo proposto un programma di transizione all’economia di mercato più morbido per evitare l’iperinflazione e con un equo piano di privatizzazioni che non è stato accettato da Gorbachëv e, alla fine, non è stato preso in considerazione neanche da Eltsin. Però, quando c’è stato il tentativo di colpo di stato nel 1993, sì, allora mi schierai dalla parte di Eltsin, perché i comunisti avevano propositi reazionari, non lasciavano intravedere alcun percorso riformatore”. Negli anni successivi, Yavlinsky tornerà su posizioni assai critiche del regime, dando battaglia al Presidente sulla guerra in Cecenia, fino al punto di sostenere l’iniziativa (poi fallita) per il suo impeachment. Ma in quel decennio cova anche l’insoddisfazione della nuova classe dirigente per le perdite territoriali conseguenti al disfacimento dell’Unione sovietica; la questione del ruolo dell’Ucraina e dello status della Crimea sono già allora oggetto di dibattito pubblico. “Per Putin – spiega Yavlinsky – l’Ucraina è Russia. E questa idea non è sua, ma ricorre da molti decenni, ancor prima degli anni Novanta e si fonda sulla circostanza che l’Ucraina è stata parte dell’Impero russo. Queste sono le basi ideologiche da cui partire, tutte il resto sono scuse. Che sia la Nato ad attaccarci, che siano zanzare da combattimento [qui il riferimento è alla propaganda del Cremlino, secondo cui in alcuni laboratori ucraini sarebbero state realizzate zanzare da combattimento geneticamente modificate, ndr] sono tutte figure retoriche che sviluppano la narrazione per cui c’è qualcuno che minaccia il controllo della Russia sull’Ucraina”. L’equilibrio fragile con l’Occidente si era retto – come Yavlinsky scrisse sul quotidiano Vedomosti nel 2014 – sull’accordo tacito in base al quale Kyiv avrebbe imboccato un sentiero di avvicinamento all’Europa e, in cambio, l’Occidente avrebbe tollerato l’allora Presidente ucraino Viktor Yanukovych. “Sì, senz’altro, questo patto la Russia l’ha rotto quando Putin ha intimato a Yanukovych di non firmare l’accordo di associazione con l’Ue. Però...” e qui Yavlinsky si interrompe bruscamente. Lo invito a proseguire: “Guardi, questa tragedia è al 99% colpa nostra, però, per amor di discussione, guardando ai primi anni Duemila, viene da chiedersi se l’Occidente abbia fatto tutto il possibile per cercare di attrarre a sé anche la Russia e non solo l’Ucraina”. A questo punto elenca alcune delle occasioni mancate sia sul fronte Nato sia sul fronte Ue. Resta da chiarire se una Russia che negli anni Novanta era stata costruita su fondamenta che Yavlinsky stesso ha riconosciuto essere autoritarie fosse davvero pronta per un’integrazione con l’Occidente. “La sua è un’ottima considerazione – dice replicando all’obiezione –. Qualsiasi cosa io dica adesso sarebbe wishful thinking, però le rispondo così: step by step. Bisogna sapersi muovere in direzione dell’obiettivo: la politica e la diplomazia servono a questo. Lei lo sa per quanti secoli Francia e Germania si sono combattute? E quand’è che è finito tutto? Solo dopo la II guerra mondiale, con la nascita delle Comunità europee. Alla fine degli anni Novanta la Russia era entrata a far parte del Consiglio d’Europa, aveva siglato molti accordi e le cancellerie europee avrebbero dovuto cogliere questa opportunità, magari anche sostenendo quelle forze democratiche che in Russia volevano davvero promuovere un avvicinamento – il nostro partito, tra gli altri – e non civettare con Russia Unita, con Ldpr di Vladimir Zhirinovsky o con Russia Giusta di Sergey Mironov. L’Europa ha voluto vivere tranquilla finché ha potuto, senza porsi problemi che le sembravano troppo grandi e distanti”. Negli ultimi mesi l’idea di uno spazio economico e politico da Lisbona a Vladivostok è stata, invece, rispolverata dall’ex presidente Dmitry Medvedev in un’ottica eurasiatica, assai più minacciosa nelle sue implicazioni imperiali. “La Russia è un paese europeo, ma allo stato attuale, con Putin alla guida ancora per diverso tempo, non è più possibile immaginare di riprendere il cammino”, conclude Yavlinsky, che, però, dal canto suo, ci conferma di aver mantenuto i rapporti con i colleghi della famiglia europea dell’Alde, cui Yabloko aderisce dal 2006. Si arriva così al leniniano che fare? della nostra conversazione. “Dopo aver invaso l’Ucraina, Putin non ha alcuna intenzione di fare marcia indietro. Io e il mio partito ci battiamo dall’inizio perché si arrivi a un cessate il fuoco che possa costituire una base per intavolare negoziati. Ma al momento nessuno li vuole davvero…Quanto unilateralmente dichiarato per il Natale ortodosso ovviamente non era un cessate il fuoco credibile...”. Ma che senso avrebbe un negoziato ora, con il 15 per cento del territorio ucraino occupato, quattro regioni ucraine soltanto in parte controllate dai russi, ma già illecitamente annesse alla Federazione? “Yabloko non riconosce queste annessioni – mi interrompe Yavlinsky – I confini della Federazione per noi sono quelli precedenti al 2014”. L’affermazione è potente. E’ proprio di questi giorni la notizia che il Cremlino avrebbe intenzione di liquidare i partiti che conducono “attività contro lo Stato” e non riconoscono le annessioni dei nuovi territori. “Ciò detto – prosegue Yavlinsky – analizziamo freddamente la situazione: quali sono le prospettive per l’anno in corso?”. Allargo le braccia. La domanda pare retorica. “Le prospettive sono pessime, specie per l’economia ucraina… Mentre le sanzioni non hanno impedito alla Russia di continuare il proprio intervento militare o sbaglio?”. Mi limito a obiettare che le sanzioni, pur non avendo causato il collasso che ci si aspettava a marzo, hanno spinto la Russia in recessione, mentre l’embargo su gas e petrolio sta iniziando a mordere il bilancio della Federazione: “Non nego tutto questo, le sanzioni hanno avuto certamente un impatto, ma se l’obiettivo era impedire a Putin di continuare la sua cosiddetta operazione speciale allora l’embargo andava fatto subito…”. Un obiettivo massimalista – osservo – che mal si concilia col tentativo occidentale di svincolarsi dalla dipendenza energetica russa senza provocare profonde tensioni sociali: “Capisco bene questa esigenza di bilanciamento, però allora bisogna avere l’onestà di dire che per molti mesi l’Occidente, con una mano, ha aiutato l’Ucraina e con l’altra ha continuato a finanziare la Russia. E questo non può che spingere la fine del conflitto molto più in là. Nel 2023 vedremo... ma l’impressione è che la Russia, per quanto indebolita, avrà purtroppo ancora capacità per alimentare l’operazione”. Ma l’Ucraina? Non ha forse il diritto di chiedere sostegno armato? Yavlinsky è nato a Leopoli, nell’Ucraina occidentale; in un’altra intervista di qualche giorno prima ha detto di essere ancora in contatto con il fratello e con alcuni compagni di scuola che vivono laggiù, per quanto con loro il tema della guerra resti un tabù. Se fosse un politico ucraino davvero chiederebbe negoziati? “A questa domanda non rispondo. Non mi intrometto in quello che fa la classe politica Ucraina. Capisco quello che provano gli ucraini e comprendo le loro aspirazioni, ma non sta a me dare loro consigli”. Resta il tempo per un’ultima domanda. Lei, Yavlinsky, non ha procedimenti penali pendenti, è stato fermato dalla polizia soltanto una volta durante le manifestazioni spontanee contro la guerra e, a differenza di altri intellettuali, non è ancora stato etichettato come “agente straniero” dal ministero della Giustizia. Significa che viene tollerato dal regime perché in passato ha fatto parte dell’establishment o, altrimenti, si è già chiesto perché è ancora libero? “Non lo so...” Fa una pausa e poi sbotta: “Magari stanno solo aspettando la pubblicazione della sua intervista per arrestarmi [Ride]. Scherzi a parte, non lo so, ma io sono pronto”.
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante