Gli Accordi di Abramo, il futuro del Medio Oriente
Analisi di Antonio Donno
A destra: la firma degli Accordi Abramo
Gli Accordi di Abramo subiranno un contraccolpo negativo a causa della nascita del nuovo governo di Israele? Nel programma del governo Netanyahu, infatti, sono presenti impegni consistenti relativi alla difesa di Israele e alla lotta al terrorismo anche all’interno dei territori controllati dall’Autorità Palestinese e a difesa degli insediamenti israeliani lì presenti. In sostanza, gli accordi fra il Likud e i partiti religiosi prevedono un rafforzamento significativo di una politica di contrasto anti-terroristico e nello stesso tempo di sostegno e di sviluppo per gli insediamenti più esposti ad oriente.
Il problema che si pone, dunque, è se un eventuale aumento del conflitto possa suscitare la riprovazione proprio di quegli Stati arabi sunniti che hanno firmato gli Accordi di Abramo con Israele e il pericolo di un raffreddamento delle relazioni fra la componente araba e quella israeliana. In realtà, nulla può far prevedere questa conseguenza. Il dato di fatto che ha dato vita agli Accordi di Abramo è l’interesse ormai consolidato dei Paesi arabi firmatari a sviluppare la propria economia grazie al sostegno dell’alta tecnologia di Gerusalemme e della sua capacità di coinvolgimento in funzione della creazione di nuove tecnologie in grado di legare le prospettive di sviluppo di quella parte della regione mediorientale aderente agli Accordi. Questi esiti potranno avere una capacità di reazione positiva da parte di altri Paesi della regione e si potrà profilare un allargamento dell’intesa economico-politica, a cominciare dall’Arabia Saudita, per ora ferma su posizioni negative a causa della mancata soluzione della questione israelo-palestinese.
Perché gli Stati arabi sunniti che hanno aderito agli Accordi di Abramo non hanno tenuto conto della questione palestinese come fattore di negazione di ogni collaborazione con Israele? La risposta è semplice, si fa per dire: la ragione è che il protrarsi pluridecennale del problema, senza prospettiva di soluzione, ha finito per svantaggiare l’economia di quei Paesi, ha posto quei governi in una situazione di stallo politico in una regione che è al centro di interessi politici ed economici delle maggiori Potenze del sistema politico internazionale e, infine, li ha resi potenziali obiettivi del progetto egemonico su scala mediorientale dell’Iran. Così, ragioni economiche, nuove prospettive politiche e impellenti ragioni di difesa nazionale hanno indotto alcuni Paesi arabi sunniti ad aderire ad una serie di accordi che hanno costituito un pacchetto di soluzioni di rara importanza nella storia di una regione fondamentale nello scenario politico-economico globale.
Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan hanno costituito un asse politico-economico che è venuto ad aggiungersi alla pace tra Israele ed Egitto del 1979 e a quella tra Israele e Giordania del 1994, costituendo un’asse che va dal Mediterraneo al Golfo Persico. Gli Accordi di Abramo rappresentano soprattutto un successo di Netanyahu, che in questo modo ha creato un sistema di sbarramento nei confronti della penetrazione dell’Iran nel cuore del Medio Oriente. L’alleanza che si sta delineando tra Iran e Russia rende ancor più pregnante il significato politico degli Accordi di Abramo, in quanto i due Paesi sono portatori di un progetto egemonico nell’Europa Orientale, il primo, e nel Medio Oriente, il secondo, che costituisce un blocco di potere dittatoriale di grandi dimensioni territoriali.
Per questi motivi, la composizione del nuovo governo di Netanyahu non può rappresentare un fattore negativo per i Paesi arabi firmatari degli accordi con Israele. Quei Paesi sono stanchi di svolgere il ruolo incoerente, e soprattutto negativo dal punto di vista dei propri interessi nazionali, di nemici storici di Israele di fronte ad un problema irrisolvibile. Hanno compiuto un passo fondamentale nella loro storia e non hanno intenzione di negarlo.
Gli Accordi di Abramo, voluti da Netanyahu, svolgono un ruolo fondamentale di supplenza all’assenza degli Stati Uniti dallo scenario del Medio Oriente. Israele, ancora una volta, si difende da sé e il nuovo governo di Netanyahu è impegnato oggi in una svolta storica molto impegnativa per la difesa del Paese.