Testata: Il Foglio Data: 13 gennaio 2023 Pagina: 1 Autore: Giulia Pompili Titolo: «Via i falchi da Pechino»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/01/2023, a pag.1, con il titolo "Via i falchi da Pechino" l'analisi di Giulia Pompili.
Giulia Pompili
Roma. Per salutare gli americani, all’inizio di gennaio, in un editoriale sul Washington Post l’ex ambasciatore cinese in America, Qin Gang, aveva usato T. S. Eliot: “La fine è il punto da cui partiamo”. Il problema è che il diplomatico lascia l’ambasciata di Pechino forse peggio di come l’aveva trovata. Il palazzone bianco su Van Ness street a Washington Dc, progettato dall’archistar cinese naturalizzata americana Ieoh Ming Pei, è sempre di più il simbolo di un conflitto diplomatico tra America e Cina che è lì per restare, anche se gli ambasciatori cambiano, se le politiche si aggiustano. Qin Gang è stato promosso a ministro degli Esteri di Pechino alla fine dello scorso anno, e ha già iniziato il tradizionale tour d’inizio anno in Africa (il ministro degli Esteri cinese inizia sempre l’anno dai paesi africani). Qin Gang ha pure già parlato al telefono con il suo omologo russo, Sergei Lavrov. Ma secondo molti osservatori la sua nomina avrà una conseguenza precisa: la diplomazia cinese si concentrerà sempre di più sulle relazioni con Washington. In un articolo molto discusso pubblicato dal Financial Times martedì scorso, diverse fonti cinesi parlano di uno spostamento degli obiettivi del leader Xi Jinping: “Pechino sta cercando di mettere insieme delle politiche volte a migliorare i rapporti diplomatici che si erano inaspriti gravemente e a rilanciare un’economia profondamente colpita” dall’isolamento della politica Zero Covid e dalle posizioni della Cina sulla guerra in Ucraina. Uno dei volti di questo cambiamento sarebbe proprio quello di Qin Gang. Era arrivato a Washington un anno e mezzo fa, in un momento molto complicato per le relazioni America-Cina. Qin non aveva esperienza né contatti nell’establishment americano, ma era noto a chi segue la politica cinese: era stato il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, e periodicamente si sottoponeva a uno dei riti più importanti della comunicazione internazionale cinese, cioè la conferenza stampa quotidiana – uno dei pochissimi momenti in cui i giornalisti possono rivolgere domande direttamente ai funzionari cinesi. Non era ancora uscito il film “Wolf Warrior 2” – il campione d’incassi da cui arriva l’espressione “diplomazia dei wolf warrior” per definire i falchi della propaganda cinese – ma Qin era considerato un allineatissimo del nazionalismo cinese, citando proverbi e Confucio per rafforzare le posizioni della leadership. Restò portavoce fino al 2014. Quando venne ufficializzata la sua nomina ad ambasciatore negli Stati Uniti, Lizzi C. Lee sul Diplomat ricordò un episodio: “In occasione di un evento per la stampa, dopo che l’allora presidente americano Barack Obama aveva probabilmente rifiutato l’invito di Pechino di includere la Cina in un viaggio tra gli alleati americani in Asia, Qin disse: ‘Ingraziarsi gli Stati Uniti in cambio della visita del presidente americano è l’ultima cosa che farebbe Pechino. Direi che la Cina è proprio qui, che lui venga o meno’”. Qin Gang ha un’altra caratteristica importante in questa fase cinese: nei suoi anni a capo del protocollo del ministero, cioè l’uomo che organizza le visite di stato di Xi, è diventato un fedelissimo del leader. Non fa parte della sua fazione, ma è riuscito a entrarci. E infatti non era l’uomo destinato a sostituire Wang Yi, ministro degli Esteri andato in pensione all’ultimo Congresso del Partito; nei mesi scorsi si parlava insistentemente dell’ex viceministro, Le Yucheng, che però a giugno è stato degradato all’improvviso. Secondo il Financial Times, al momento dell’inizio della guerra in Ucraina, Le era il massimo esperto di Russia del ministero, e forse la sua rimozione è un elemento per comprendere il complicato rapporto tra Pechino e Mosca. Spesso la comunità internazionale scopre i reali obiettivi di Pechino guardando alle sue nomine e alle sue destituzioni. Il diplomatico Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri e uno dei rappresentanti della corrente dei falchi nazionalisti, la scorsa settimana è stato rimosso dal suo incarico e spostato a una scrivania del ministero. Una mossa che sarebbe coerente con questo nuovo corso di una diplomazia più ammorbidita della Cina, che ha bisogno disperatamente di parlare con l’occidente.
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