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La Stampa Rassegna Stampa
30.03.2003 Gli ebrei "traditi" dalla sinistra italiana
In tempo di guerra le paure e la rabbia degli ebrei romani.

Testata: La Stampa
Data: 30 marzo 2003
Pagina: 13
Autore: Aldo Cazzullo
Titolo: «La rabbia degli ebrei: traditi dal pacifismo di sinistra»
Riportiamo un articolo di Aldo Cazzullo pubblicato su La Stampa domenica 30 marzo 2003.
ROMA FUORI sventola la bandiera israeliana. Dentro, quella americana. Non
c'è più il poster della Roma, ma la sciarpa dell'Apoel Tel Aviv. Sparita la
foto di Theodor Herzl intellettuale progressista e padre del sionismo, al
suo posto un vecchio che suona lo shofar al muro del Pianto. Il rituale del
Sabato è sempre lo stesso, il vino i dolci la kippah, l'ebraico pronunciato
con accento romanesco, si distinguono ora «adonai», Signore, ora «baruch»,
benedetto, e poi shalom, amen, shabbat. Sono gli ebrei, a non essere più
quelli. Non le figure dolenti del ghetto, gli scampati del documentario
girato da Sergio Zavoli a vent'anni dal passaggio dei nazisti (16 ottobre
1943), gli ebrei che raccontavano a mezza voce tragedie immani con la
naturalezza che Carlo Fruttero aveva visto in Primo Levi, quando veniva
all'Einaudi come «un eroe greco che per un capriccio del fato fosse stato
espulso dal palcoscenico della tragedia e stesse lì, a prendere assurdamente
un caffè». Non le antiche signore della borghesia intellettuale, gentili,
sorridenti, raffinate, che votavano repubblicano o socialista; non «i
timorosi ebrei della diaspora conosciuti a Parigi a Milano a Praga con cui
si parla di libri e di musica», di cui ha scritto Giorgio Bocca; non gli
studiosi con «il pince-nez e l'impeccabile homburg rovesciato a terra a
contenere l'ultima rivista scientifica invece dei guanti», raccontati da
Giacoma Limentani in «Dentro la D», lessico famigliare del ghetto, in cui D
sta per destino; e neppure i popolani romani, romanisti e comunisti. «Gli
ebrei timorosi li hanno ammazzati ad Auschwitz» dice ora Joseph Toaff, 23
anni, nipote dell'ex rabbino capo Elio e segretario del Movimento culturale
studenti ebrei. «E' una citazione di Golda Meir, ma è anche il nostro
pensiero». Gli ebrei romani sono cambiati. Alcuni lo riconoscono, anzi lo
rivendicano. Altri preferiscono inquadrare la mutazione nel tempo, e nei
tempi. Tutti sono preoccupati per la guerra. Qualcuno anche arrabbiato,
indignato, offeso per le venature antisemite che scorge nel movimento
pacifista. Molti si sentono «traditi dalla sinistra». Altri tornano a
diffidare dei cattolici e della Chiesa. Tutti sono decisi a «non subire
più». Nel cuore del ghetto, al circolo Zi' Raimondo, che i «ragazzi del '48»
hanno dedicato al lare della comunità scampato ad Auschwitz, il rito dello
shabbat si celebra con la tv accesa sui telegiornali di guerra. Si parla di
Iraq, si accendono la rabbia e la passione ed è difficile distinguere chi
parla, se il presidente Angelo Sermoneta detto Baffone o gli altri soci, Er
Tribolato, Archimede, Cavallo. «Noi siamo di sinistra sin dalla nascita, e
ora assistiamo al paradosso per cui la sinistra ci attacca e i fascisti ci
difendono». «Io non voto più. Votare a destra non ce la faccio, ma votare la
sinistra filoaraba non si può». «Si può votare Pannella. E' l'unico che ci
difende». «No, c'è anche il sindaco». «Qui tornano i Protocolli dei Savi di
Sion!». «Sembra che Bertinotti, D'Alema, i giornalisti del Tg3 e anche
Maurizio Costanzo siano stipendiati da Saddam e Arafat». «L'informazione è a
senso unico, contro Bush e contro Israele». «La sinistra ha manipolato e
distrutto la parola pace. Che c'entrano le bandiere palestinesi con la
pace?». «L'antisemitismo è tornato. Nei cortei, nei siti Internet, nelle
scritte sui muri. Stavolta non a destra, ma a sinistra». «I segni
dell'antisemitismo ci sono, e li ho visti con i miei occhi - dice il rabbino
capo di Roma Riccardo Di Segni, guida spirituale della più antica comunità
della diaspora -. Penso allo striscione firmato dai Cobas e portato nel
corteo pacifista del 15 febbraio, che ho poi rivisto in tv nelle
manifestazioni contro i treni delle armi. C'era scritto "no alla guerra", ma
nella "g" c'era il segno del dollaro e nella "a" c'era la stella di David.
Il tema dell'ebreo ricco e guerrafondaio è spaventoso. Questo è
antisemitismo». Il rabbino capo è attento a distinguere. Tra le parole del
Papa e «alcune spiacevoli espressioni del Vaticano e dell'Osservatore
romano». Tra «le grandi idealità positive e condivisibili espresse dal
movimento per la pace e gli elementi che non hanno nulla a che fare con la
pace, ma sono prodotti dell'ideologia». Esprime angoscia per i rischi che si
corrono in Israele e anche qui a Roma, «ci definiscono eufemisticamente un
"obiettivo sensibile", e abbiamo avuto qualche segnale, qualche cosina di
dubbio significato. Non posso aggiungere altro». Prevede che se ci sarà un
altro Usa Day «molti vi aderiranno». Perché gli ebrei non hanno più timore
di esporsi, di rispondere, di manifestare; anche se il rabbino capo fa
risalire indietro nel tempo questa attitudine, alla reazione all'attentato
contro la sinagoga (morì un bambino di 2 anni, Stefano: 9 ottobre 1982) e
all'indulgenza per Priebke (primo agosto 1996). «C'è una leadership più
visibile - spiega Di Segni -, c'è una forte intenzione di proclamare le
proprie idee e la propria identità». Sono soprattutto le nuove generazioni,
a sentire il legame del sangue e della terra, a tornare alla pratica
religiosa, ad avvertire la necessità del legame con Israele, a teorizzare
l'esigenza di rispondere colpo su colpo nella battaglia polemica. Sono i
ragazzi che un anno fa protestarono sotto la sede di Rifondazione comunista
e animarono l'Israele Day nel ghetto. Riccardo Pacifici, portavoce della
comunità: «Rispettiamo i pacifisti quando esprimono sentimenti genuini, non
quando inneggiano a Che Guevara e all'Intifada». Dario Cohen, imprenditore:
«Un tempo collocarci a sinistra era indispensabile. Ora si può e si deve
scegliere. Come possiamo sentirci in sintonia con la parte della sinistra
che teorizza il né-né, né con Bush né con Saddam? O con il Papa, che si è
mosso in modo opportunistico, pensando solo alla tutela delle minoranze
cristiane in Medio Oriente?». Barbara Pontecorvo, avvocato: «Considero la
guerra all'Iraq giusta e legittima, e i movimenti pacifisti mi allarmano.
Temo forti strumentalizzazioni. Mi pare che l'opposizione vada cercando
nella pace un argomento forte che crei unità. Vedo nei cortei tante bandiere
palestinesi, e non ne capisco il senso. Vedo segni di una cultura dell'odio.
Come se la guerra fosse l'occasione per il riemergere di diffidenze e
reticenze verso l'ebreo, il diverso». Una generazione per cui
paradossalmente distinguersi da Israele, criticare il governo dello Stato
ebraico è più difficile che per Primo Levi (La Stampa, 24 giugno 1982,
invasione del Libano). «Qualcuno lo fa - dice Barbara Pontecorvo - ma è un
lusso che non ci possiamo permettere. Anche perché noi non consideriamo
affatto Sharon un estremista; presentarlo così è una mistificazione dei
media; semmai, è un moderato. E anche far politica in Italia è un lusso per
noi ebrei. Il voltafaccia della sinistra ci ha colti di sorpresa. Non è
piacevole dover cambiare idea perché qualcuno ha deciso per te». «Questo
accade perché dieci o vent'anni fa non c'era la condizione di assedio che
percepiscono oggi gli ebrei in Europa» dice Victor Magiar, che appartiene
alla generazione precedente, ha una lunga militanza pacifista alle spalle, è
stato fondatore del gruppo Martin Buber-Ebrei per la pace e responsabile
dell'ufficio italiano di Shalom Achshav (Pace adesso). «La sinistra
italiana, tranne Veltroni e pochi altri, non ha superato il riflesso
terzomondista, non ha compreso il grande errore politico di Arafat, quando
disse no a Barak. Il pacifismo ha un senso se è progetto concreto; quando si
fa pura testimonianza è poco realistico. Le parole d'ordine di alcune frange
del movimento pacifista sono oggettivamente antisemite. E alcuni luoghi
comuni, come la coincidenza tra capitalismo, America, sionismo, li ritrovi
ad esempio nel libro di Asor Rosa, accanto al tema del deicidio, della razza
sterminatrice, a una visione reazionaria di cent'anni fa. Questo è
agghiacciante». Al ghetto, carabinieri e polizia hanno ulteriormente
rafforzato la sorveglianza. Mai viste tante volanti accanto alla lapide che
ricorda i morti delle Ardeatine (24 marzo 1944). Passi affrettati, sguardi
guardinghi. Echi di altre tragedie, altre paure. Quasi tutti hanno parenti
in Israele, da Israele vengono qui i bambini mutilati dai kamikaze a passare
le vacanze, i ristoranti che aprono portano nomi ebraici, servono cibi
kosher e vini della Galilea. Al circolo dei ragazzi del '48 continua la
discussione, attorno al brandello di filo spinato di Auschwitz, alla lampada
sempre accesa, alle statue degli antichi romani, «perché i primi italiani
siamo noi, fin da quando sostenevamo Giulio Cesare contro Pompeo». Passa
come ogni sera a salutare Nassim, musulmano nero. Ognuno ha una storia da
dire, un allarme da segnalare, l'amico maltrattato in discoteca perché
portava la catenina con la stella di David, i pacifisti ebrei cacciati dal
corteo in Francia. Angelo Sermoneta, Baffone: «Non vogliamo più essere
agnelli sacrificali. E lei provi a tenerla in testa anche per strada, questa
kippah. Faccia un sabato da ebreo, in Italia, nel 2003. Presti orecchio ai
sussurri, legga i giornali, osservi i gesti. Domani sera ci racconterà».
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