sabato 23 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






 
Antonio Donno
Israele/USA
<< torna all'indice della rubrica
Netanyahu e le difficoltà del nuovo governo israeliano 02/01/2023
Netanyahu e le difficoltà del nuovo governo israeliano
Analisi di Antonio Donno


Benjamin Netanyahu

Netanyahu, con il suo sesto governo di coalizione, al di là dei punti inseriti nel suo programma, ha due importanti problemi da affrontare e superare: l’opposizione interna e quella internazionale. Per la prima, la questione si pone in questi termini. Durante la lunga gestazione del suo governo Netanyahu ha dovuto in primo luogo rigettare le soffocanti richieste dei partiti religiosi suoi alleati durante la campagna elettorale e, poi, si è rivolto – più come minaccia nei confronti dei suoi alleati che per vera decisione politica – all’opposizione (Lapid e Gantz), che però si è rifiutata di stringere un’alleanza governativa con il Likud. A questo punto, i partiti religiosi sono scesi a più miti consigli e la compagine governativa è nata sulla base di un equilibrio di attribuzioni ministeriali che si spera resista nel tempo.

     Ma il vero problema interno – almeno in questa prima fase di vita del nuovo governo – è l’opposizione sociale che si è scatenata nei confronti di Netanyahu e dei suoi alleati. È difficile dire quanto tale opposizione durerà nel tempo e come sarà manovrata dai partiti sconfitti nelle elezioni. Un dato, però, è certo. Netanyahu ha vinto nettamente e i suoi avversari hanno perso per non aver saputo rappresentare politicamente le posizioni che l’elettorato contrario a Netanyahu esprime. Essi si sono limitati a criticare con asprezza il programma di Netanyahu e le alleanze politiche che presentava agli elettori, senza tuttavia offrire una vera alternativa programmatica agli israeliani. Questa debolezza politica ha punito Lapid, Bennett, Gantz e soci, spostando sull’altro fronte quel numero di elettori sufficiente a far trionfare Netanyahu e i suoi alleati, attribuendo loro 64 seggi, cioè una chiara maggioranza. La protesta sociale, al momento della comunicazione dei risultati elettorali, non ha alcun senso dal punto di vista del significato politico. Essa dovrebbe soprattutto fare i conti con i propri rappresentanti politici, che non sono stati in grado di dare a Israele quella svolta anti-Netanyahu che una parte del Paese desiderava. Questa è la realtà di Israele. Benjamin Netanyahu ha vinto perché negli scorsi decenni ha portato Israele ai vertici della politica internazionale e ha fatto del suo Paese una potenza economica. I suoi avversari hanno, in fin dei conti, dimostrato una pochezza politica che ha prodotto la loro sconfitta.

     Ben più complessa è la posizione del nuovo governo Netanyahu a livello internazionale. Esso comprende alcuni partiti religiosi e per questo motivo ha incontrato il sospetto della Casa Bianca e di altri Paesi occidentali. Essi giudicano la presenza di partiti con forte caratterizzazione religiosa all’interno della nuova compagine governativa come un fattore profondamente negativo per la soluzione del decennale contenzioso con la parte palestinese. Il problema è che Biden e altri leader occidentali sono bloccati politicamente sul concetto che la pace potrà essere raggiunta soltanto con la nascita di uno Stato Palestinese accanto allo Stato ebraico. La storia della regione ha dimostrato sempre che il mondo palestinese è fermo sulla convinzione che Israele dovrebbe scomparire per lasciare posto a un solo Paese, quello arabo-palestinese, e che la formula “due popoli-due Stati” è un vecchio marchingegno propagandistico per mettere in moto la diplomazia internazionale, in primo luogo quella americana.

     È che a partire da Obama questo progetto ha rappresentato una sorta di ricatto politico nei confronti di Israele e il giusto rifiuto da parte di Gerusalemme ha finito per irrigidire la posizione degli Stati Uniti e dei Paesi occidentali. Sulle posizioni di Biden gravano i condizionamenti della parte oltranzista della politica democratica, ma lo stesso Biden si è sempre dichiarato convinto della giustezza di questa soluzione. Oggi più di prima, l’attuale composizione del governo di Netanyahu convince Biden e gli altri che Israele è responsabile del permanere di una situazione di conflitto nella regione e, di conseguenza, i palestinesi traggono vantaggio politico da tale posizione americana. Il compito di Netanyahu è particolarmente difficile. Il primo ministro israeliano deve convincere la Casa Bianca che la situazione politica di Israele è tale da non consentire alcun’altra soluzione che quella attuale e che il pericolo dell’Iran impone stabilità politica e decisioni concrete, anche per dimostrare ai Paesi arabi sunniti firmatari degli Accordi di Abramo che Israele è un punto di riferimento politico, economico e militare in grado di dare sicurezza a quella parte del mondo arabo minacciato di un Iran in possesso dell’arma nucleare.

Immagine correlata
Antonio Donno

       

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT