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Netanyahu e le difficoltà del nuovo governo israeliano Analisi di Antonio Donno
Benjamin Netanyahu Netanyahu, con il suo sesto governo di coalizione, al di là dei punti inseriti nel suo programma, ha due importanti problemi da affrontare e superare: l’opposizione interna e quella internazionale. Per la prima, la questione si pone in questi termini. Durante la lunga gestazione del suo governo Netanyahu ha dovuto in primo luogo rigettare le soffocanti richieste dei partiti religiosi suoi alleati durante la campagna elettorale e, poi, si è rivolto – più come minaccia nei confronti dei suoi alleati che per vera decisione politica – all’opposizione (Lapid e Gantz), che però si è rifiutata di stringere un’alleanza governativa con il Likud. A questo punto, i partiti religiosi sono scesi a più miti consigli e la compagine governativa è nata sulla base di un equilibrio di attribuzioni ministeriali che si spera resista nel tempo.
Ma il vero problema interno – almeno in questa prima fase di vita del nuovo governo – è l’opposizione sociale che si è scatenata nei confronti di Netanyahu e dei suoi alleati. È difficile dire quanto tale opposizione durerà nel tempo e come sarà manovrata dai partiti sconfitti nelle elezioni. Un dato, però, è certo. Netanyahu ha vinto nettamente e i suoi avversari hanno perso per non aver saputo rappresentare politicamente le posizioni che l’elettorato contrario a Netanyahu esprime. Essi si sono limitati a criticare con asprezza il programma di Netanyahu e le alleanze politiche che presentava agli elettori, senza tuttavia offrire una vera alternativa programmatica agli israeliani. Questa debolezza politica ha punito Lapid, Bennett, Gantz e soci, spostando sull’altro fronte quel numero di elettori sufficiente a far trionfare Netanyahu e i suoi alleati, attribuendo loro 64 seggi, cioè una chiara maggioranza. La protesta sociale, al momento della comunicazione dei risultati elettorali, non ha alcun senso dal punto di vista del significato politico. Essa dovrebbe soprattutto fare i conti con i propri rappresentanti politici, che non sono stati in grado di dare a Israele quella svolta anti-Netanyahu che una parte del Paese desiderava. Questa è la realtà di Israele. Benjamin Netanyahu ha vinto perché negli scorsi decenni ha portato Israele ai vertici della politica internazionale e ha fatto del suo Paese una potenza economica. I suoi avversari hanno, in fin dei conti, dimostrato una pochezza politica che ha prodotto la loro sconfitta.
Ben più complessa è la posizione del nuovo governo Netanyahu a livello internazionale. Esso comprende alcuni partiti religiosi e per questo motivo ha incontrato il sospetto della Casa Bianca e di altri Paesi occidentali. Essi giudicano la presenza di partiti con forte caratterizzazione religiosa all’interno della nuova compagine governativa come un fattore profondamente negativo per la soluzione del decennale contenzioso con la parte palestinese. Il problema è che Biden e altri leader occidentali sono bloccati politicamente sul concetto che la pace potrà essere raggiunta soltanto con la nascita di uno Stato Palestinese accanto allo Stato ebraico. La storia della regione ha dimostrato sempre che il mondo palestinese è fermo sulla convinzione che Israele dovrebbe scomparire per lasciare posto a un solo Paese, quello arabo-palestinese, e che la formula “due popoli-due Stati” è un vecchio marchingegno propagandistico per mettere in moto la diplomazia internazionale, in primo luogo quella americana.
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