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La Repubblica Rassegna Stampa
28.12.2022 Bucha 8 mesi dopo
Cronaca di Laura Lucchini

Testata: La Repubblica
Data: 28 dicembre 2022
Pagina: 13
Autore: Laura Lucchini
Titolo: «Il team di psicologhe a Bucha otto mesi dopo: 'Aiutiamo le vittime a emergere dall’apnea'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 28/12/2022, a pag. 13, con il titolo "Il team di psicologhe a Bucha otto mesi dopo: 'Aiutiamo le vittime a emergere dall’apnea' ", la cronaca di Laura Lucchini.

Volodymyr Zelensky

«Il mio nome è Nataliia Zaretska. Sono arrivata a Bucha il 20 aprile. Sono una psicologa militare. Sono specializzata in isolamento, situazioni di occupazione, privazione di libertà. Quando sono arrivata, ho capito immediatamente che qui il 100% erano casi di mia competenza ». La presenza fisica forte, il viso sveglio e sorridente, il linguaggio competente ma semplice danno immediatamente un senso di sollievo rispetto a quello che è rimasto fuori dalla porta. La giornata di temperatura mite ha trasformato il terreno intorno alla chiesa a 500 metri di distanza in una palude desolata. Nemmeno le corone di fiori lasciate dai passanti durante i giorni festivi riescono a offrire alcun conforto. Sotto la palude sono sepolte centinaia di vittime. Otto mesi dopo la liberazione della cittadina diventata simbolo dei crimini russi durante la guerra in Ucraina, ci sono ancora 35 salme senza nome e molto lavoro da fare. Dalla ricostruzione degli edifici e gli allacciamenti elettrici e idrici a «un’opera collettiva di decompressione». Per spiegare meglio, Zaretska, fa ricorso a una metafora. «È un processo naturale. Quando sei in fondo al mare, sei sotto compressione. Quando devi riemergere, devi farlo poco a poco. Lo stesso vale in contesti di guerra per situazioni di isolamento. Il processo di decompressione è cruciale». Zaretska, 47 anni è la prima psicologa che è arrivata sul luogo di uno dei più efferati crimini di guerra del nostro tempo. Insieme a un team composto da altre 4 donne si è fatta carico di far riemergere la cittadina dai traumi subiti durante l’occupazione. Con lei ci sono Tamara Mykytenko, Nataliya Belova, Olena Moklyak e Ina Kovalenko. L’esumazione dei corpi, il loro riconoscimento, la sepoltura, il processo di pulizia delle strade e la ricostruzione: tutti questi passaggi dolorosi per la comunità sono visti come fondamentali dalla task force di psicologhe. «Sono gradi di decompressione », insiste Zaretska. Dei 3700 casi registrati dopo la ritirata russa, tutti presentavano aspetti legati all’isolamento forzato. La prima cosa è stata dividere questi casi secondo una graduatoria di urgenza. Al contrario di quanto si possa pensare, non sono solo le vittime dirette di tortura o violenza i casi più seri. Spesso essere testimoni di un crimine, rimanendo inermi, ha conseguenze anche più gravi. «Praticamente tutti i nostri casi hanno avuto esperienza di violenza morale forte. Con soldati russi che entravano arbitrariamentenelle loro case, causavano distruzione e rubavano oggetti di valore », spiega Tamara Mykytenko. Una forma usata dagli invasori era la minaccia di fare del male, violentare o uccidere le persone care a qualcuno: «Abbiamo ancora molti casi di uomini che vivono nel terrore di non riuscire a proteggere le mogli dalla violenza sessuale». Ci sono due domande che ricorrono ossessivamente tra coloro che hanno vissuto casi di isolamento. La prima, spiegano, è: «Come fa unessere umano ad essere questo tipo di essere umano?». E la seconda è: «Quanto diversi siamo noi veramente dai russi?». La risposta a queste domande è ancora più difficile da formulare se si considera che la maggior parte della popolazione di Bucha era russofona e che stando agli stessi racconti delle vittime, nessuno temeva più di tanto l’invasione: pensavano che non accadesse e se anche fosse accaduta i civili non sarebbero stati in pericolo. «Abbiamo dovuto affrontare violenze molto forti», spiega Ina Kovalenko, che oltre ad assistere le vittime di Bucha, è stata lei stessa vittima dell’occupazione a Irpin: «Entravano nelle case, facevano quello che gli saltava in mente, portavano via le persone. Tutti abbiamo dovuto assistere a violenze arbitrarie».

Ukraine war latest: Kyiv 'aiming for peace talks' with Russia at UN by  February | World News | Sky News

Mentre si affrontano questi discorsi, a Kiev suonano le sirene antiaeree e diversi tra i presenti ricevono le notifiche sui cellulari. I canali ufficiali di Telegram indicano che i Mig russi si sono alzati in volo dalla Bielorussia (una situazione ricorrente negli ultimi giorni). Il confine bielorusso è però a soli 150 km. E lo spettro paventato da molte parti nelle ultime settimane di una possibile incursione da nord è uno scenario con cui anche queste psicologhe si sono dovute confrontare. «C’è la consapevolezza di essere ancora in guerra e che fino a che perdura questa situazione, tutto può accadere. Ma riguardo a quale sarebbe la reazione dei cittadini, la risposta è individuale: sicuramente alcuni se ne andrebbero. Molti altri però sceglierebbero di restare e resistere, come hanno già resistito una volta», assicura Zaretska. Fuori, la città è popolata. I negozidi alimentari sono affollati e si nota la presenza della cooperazione internazionale: ci sono prefabbricati donati dalla Svezia per scaldarsi durante i blackout, altri alloggi temporanei per sfollati donati dalla Polonia, una tenda dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’asilo è stato distrutto e i bambini più piccoli sono a carico dei genitori. In una struttura allestita dall’Unicef le famiglie possono portare i figli a giocare. Qui il personale specializzato insegna loro, attraverso il gioco, a riconoscere granate e mine anti-uomo e cosa fare in queste situazioni. Mesi dopo la liberazione, Bucha non è più l’inferno documentato dai fotoreporter l’indomani della ritirata russa, ma toglie ancora il fiato. Di nuovo le parole di Zaretska servono di conforto: «Non bisogna dimenticare mai che ogni esperienza, anche quella più traumatica può essere trasformata in una risorsa interna e in crescita».

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