Il ‘diritto al ritorno’: la grande menzogna
Analisi di David Elber
Un tipico esempio di propaganda sul "diritto al ritorno"
Una delle più grandi mistificazioni create attorno al conflitto arabo-israeliano è senza ombra di dubbio quella del “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi. Questa vera e propria leggenda è iniziata pochi mesi dopo lo scoppio della guerra d’aggressione voluta dagli arabi ai danni del nascente Stato di Israele nel 1948.
Prima di entrare nel merito di questa questione politica che è, ormai, il vero ostacolo a qualsiasi trattativa di pace tra Israele e l’Autorità Palestinese, bisogna subito chiarire che un “diritto al ritorno” dei profughi non esiste nel diritto internazionale. Per comprovarlo, è sufficiente fare una veloce analisi di come sono stati trattati, dalla Comunità internazionale, i casi di tutti i profughi prodotti dalle guerre a partire dalla Seconda guerra mondiale. In nessuna di queste circostanze i profughi sono tornati nelle località abbandonate – soprattutto in quelle dei paesi responsabili delle guerre – anzi la Comunità internazionale ha cercato di favorire la creazione di Stati “etnicamente omogenei” per evitare futuri contenziosi.
Così al termine della Seconda guerra mondiale vennero espulsi dalle loro abitazioni oltre 14.000.000 di tedeschi che risiedevano in Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Paesi baltici e Romania. Per la stessa ragione furono espulsi quasi un milione di polacchi dalla Bielorussia e dall’Ucraina quando l’URSS spostò arbitrariamente i confini verso Ovest alla fine della guerra. Lo stesso principio fu utilizzato quando l’ex colonia britannica dell’India si divise tra India e Pakistan: qui oltre 20.000.000 di persone furono costrette ad abbandonare le proprie case e diventarono profughi per garantire maggiore omogeneità etnica ai due nascenti paesi. Questo avvenne tra il 1947 e il 1948 esattamente gli stessi anni dell’indipendenza di Israele. Non è da dimenticare, inoltre, la pulizia etnica di circa un milione di ebrei dai paesi arabi. Come mai allora, tra tutti i casi mondiali, si vuole ricordare solo il caso dei “profughi palestinesi”? Per mere ragioni politiche atte a delegittimare Israele.
L’origine della leggenda è in un documento: la Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’ONU, la più mistificata e alterata (assieme alla 181), nel corso dei decenni, tra le risoluzioni ONU riguardanti il Medio Oriente.
I rifugiati palestinesi e la Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale
La Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’11 dicembre 1948, è stata presentata, nel corso degli anni e fino ai nostri giorni, da parte palestinese e dai suoi sostenitori, come la “fonte unica” del diritto internazionale per risolvere la questione dei profughi. A scanso di equivoci, bisogna subito precisare che questa risoluzione, come tutte le risoluzioni dell’Assemblea Generale, non ha valore legale per il diritto internazionale ma ha solo una valenza politica.
Facendone, poi, attenta lettura, si scopre che la risoluzione in questione è molto più ampia e articolata rispetto al problema dei profughi. Infatti, essa è composta da ben 15 paragrafi dove si parla della necessità di intavolare trattative di pace mediate dall’ONU, della demilitarizzazione di Gerusalemme, del libero accesso per tutti gli abitanti ai luoghi santi alle tre religioni oltre che il libero accesso a Gerusalemme stessa. Iniziative tutte disattese con l’occupazione giordana di parte della città. Quindi, all’interno della Risoluzione 194 si colloca un orizzonte molto più ampio del solo problema dei rifugiati, ed è la necessità di trattative di pace tra arabi e Israele. Per ragioni propagandistiche, nel corso degli anni, si è cercato di decontestualizzare un solo paragrafo (alterandone perfino il significato) da tutta la risoluzione che è molto più ampia.
Per quanto concerne il problema dei rifugiati, il solo riferimento contenuto nella Risoluzione 194 è il paragrafo 11 che si riporta per intero: […]
11 “Dispone che i rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a farlo al più presto possibile e che dovrà essere versato un indennizzo per le proprietà di coloro che scelgono di non tornare o per perdita o il danno alla proprietà che, secondo i principi del diritto internazionale o del patrimonio netto, dovrebbe essere effettuata dai governi o dalle autorità responsabili; Incarica la commissione di conciliazione di facilitare il rimpatrio, il reinsediamento e la riabilitazione economica e sociale dei rifugiati e il pagamento di un indennizzo e di mantenere stretti rapporti con il direttore del Soccorso delle Nazioni Unite per i rifugiati in Palestina e, tramite essa, con gli organi appropriati e le agenzie delle Nazioni Unite;” […]
Come si può facilmente capire la risoluzione non parla di un “diritto al ritorno” ma di risistemazione o rimpatrio all’interno di una cornice di trattative tra le parti, e si riferisce specificatamente alle persone che “desiderano vivere in pace con i vicini” cioè tramite accordi di pace tra le parti (questo concetto è presente anche in altre risoluzioni ONU, scritte per i rifugiati della II guerra mondiale o di altri conflitti). Ciononostante la leggenda di un presunto diritto al ritorno è ancora oggi abbondantemente utilizzata a livello politico e mediatico. Inoltre, a ulteriore conferma del suo valore nullo per il diritto internazionale, va evidenziato che la Risoluzione 194 non è mai stata citata in nessuna successiva trattativa vincolante tra le parti: non è citata nel trattato di pace tra Israele ed Egitto, non è citata nel trattato di pace tra Israele e la Giordania e non è nemmeno citata negli accordi di Oslo con l’OLP di Arafat. In tutti questi casi è sempre e solo citata la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza.
Entrando ancora più nel dettaglio del paragrafo 11 si possono evincere altre considerazioni fondamentali:
Il paragrafo 11 inizia così “Dispone che i rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a farlo al più presto possibile […]”. Qui ci sono già due elementi fondamentali per capire il contenuto del paragrafo sui profughi: il primo è il riferimento ai profughi che “vogliono vivere in pace”. Questo va letto in modo inequivocabile come riferito a persone che accettano l’esistenza di Israele (cosa che non era nell’intenzione degli arabi come si dimostrò in occasione della Conferenza di Losanna del 1949 quando si rifiutarono di entrare nella stessa stanza delle delegazione israeliana e che inevitabilmente fallì per il comportamento arabo). Secondo: l’espressione utilizzata: “dovrebbero essere autorizzati a farlo”. L’utilizzo del condizionale indica chiaramente che l’Assemblea Generale non ha l’autorità di imporre questa decisione (non è prevista dallo Statuto dell’ONU tra le competenze dell’Assemblea Generale) ma può semplicemente “suggerire” questo tipo di soluzione. L’AG non ha il potere di “creare” dei diritti di nessun tipo neanche quelli di “ritorno”. Tanto è vero che il termine “diritto” non è presente nella risoluzione.
Il paragrafo poi si chiude così: “dovrebbe essere versato un indennizzo per le proprietà di coloro che scelgono di non tornare o per la perdita o il danno alla proprietà che, secondo i principi del diritto internazionale o del patrimonio netto, dovrebbe essere effettuata dai governi o dalle autorità responsabili”. Anche qui l’utilizzo del condizionale denota che questa proposta è una semplice indicazione non certo un diritto che l’AG non ha il potere di imporre. Interessante anche l’utilizzo dell’espressione “dovrebbe essere effettuata dai governi o dalle autorità responsabili”. Indica chiaramente i governi al plurale, quindi non è certo riferito a Israele ma a vari governi e autorità responsabili, forse sono gli Stati arabi causa della guerra e dei profughi? O i governi degli Stati dell’ONU attraverso degli aiuti? Dalla lettura dei verbali si propende per la seconda ipotesi.
Da una lettura attenta del paragrafo 11 della Risoluzione 194, infine, emerge che i “palestinesi” non sono mai menzionati. Ma si parla in termini generali di “rifugiati” che quindi sono arabi ed ebrei. Così come si evince anche dalle Risoluzioni 212 e 302 che parlano di rifugiati dalla Palestina e non di “rifugiati palestinesi”.
Dalla lettura del paragrafo 11 di capisce chiaramente che la Risoluzione 194 non ha il potere di revocare la legittima sovranità di Israele come vogliono far credere, oggi, gli arabi e imporre soluzioni illegali e arbitrarie.
Va ricordato che la Risoluzione 194 passò con 35 voti a favore contro 15 voti contrari e 8 astensioni. Tutti i paesi arabi allora presenti all’ONU: Siria, Libano, Iraq, Egitto, Yemen e Arabia Saudita votarono contro la risoluzione così come tutti i paesi dell’Est capeggiati dall’Urss. La cosa curiosa è che sono gli stessi Stati (oltre a tutti gli altri paesi islamici che un po’ alla volta sono stati ammessi all’ONU) che nel corso dei decenni successivi hanno portato avanti le fantomatiche istanze sul “diritto al ritorno” non esistenti nella risoluzione da loro stessi ricusata.
Chi coniò il termine “diritto al ritorno dei profughi” fu il “mediatore” nominato dall’ONU il conte svedese Folke Bernadotte, pur non esistendone le basi legali, soprattutto nel caso di uno Stato aggredito, come Israele, che avrebbe dovuto farsi carico dei profughi causati da altri. Bernadotte si distinse per aver portato avanti tutte le istanze degli arabi e per aver rifiutato quelle ebraiche.
Su questa frase di Bernadotte si è costruito tutto il mito del “diritto al ritorno”.
Ultima considerazione: in tutti i casi mondiali i rifugiati sono considerati solo le persone che hanno effettivamente abbandonato le loro case e che nel tempo sono stati assorbiti dagli Stati che li hanno accolti. Il caso dei “profughi palestinesi” segue dei principi del tutto diversi e che esulano dal diritto internazionale: sono considerati profughi anche i discendenti, le persone adottate o quelle che contraggono matrimonio con i profughi stessi. In questo modo lo status di profugo diventa ereditario, trasmissibile e acquisibile. Questa “anomalia” – unica al mondo – ha fatto sì che i profughi, nel corso dei decenni, anziché diminuire dai 700.000 circa iniziali, siano arrivati, oggi, ad oltre 5.200.000. L’unico scopo di questa distorsione ha il preciso obiettivo di cancellare l’identità di Israele una volta che ai “profughi” sia concesso di entrare nello Stato ebraico.