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La Repubblica Rassegna Stampa
20.12.2022 Iran, le esecuzioni
Analisi di Massimo Recalcati, Gabriella Colarusso

Testata: La Repubblica
Data: 20 dicembre 2022
Pagina: 35
Autore: Massimo Recalcati - Gabriella Colarusso
Titolo: «L’odio per la vita - 'Subito le condanne', la minaccia del giudice per i ribelli dell’Iran»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/12/2022, a pag.35, con il titolo "L’odio per la vita", l'analisi di Massimo Recalcati; a pag. 16, con il titolo " 'Subito le condanne', la minaccia del giudice per i ribelli dell’Iran" la cronaca di Gabriella Colarusso.

Ecco gli articoli:

Pena di morte, Iran: almeno 251 esecuzioni nei primi sei mesi di  quest'anno, il totale delle impiccagioni del 2021 (314) sarà presto  superato - la Repubblica

Massimo Recalcati: "L’odio per la vita"

Le impiccagioni pubbliche dei giovani oppositori al regime teocratico degli ayatollah intendono frenare la rivolta in corso in Iran attraverso l’esibizione terroristica della morte. Una schizofrenia temporale sconcertante appare sotto ai nostri occhi. Da una parte un popolo, guidato alla rivolta dalle donne, esige libertà e democrazia muovendosi con decisione e coraggio verso un nuovo avvenire. Dall’altra parte il sistema politico del regime teocratico che resta vincolato ad un passato remoto, immobile, insensibile ad ogni progresso, ancorato ad una ideologia patriarcale e maschilista di tipo medioevale. È un esempio tragico di cosa significa restare legati nostalgicamente ad un passato destinato ad essere irreversibilmente corroso dal tempo. Ma anziché riconoscere il carattere delirantemente antiquato di questo attaccamento nostalgico, si agita l’orrore della morte come atto di giustizia voluto da Dio. È questa l’espressione del cuore profondamente perverso del regime teocratico. Quale è, infatti, la natura più profonda della perversione? Lacan lo ha indicato con precisione: farsi alfieri, legionari, crociati, cavalieri della fede di una Legge che esige il sacrificio perpetuo della vita umana nel nome di un ideale superiore. È quello che sta accadendo in Iran: si invoca la Legge di Dio contro quella degli uomini trasfigurando l’esercizio brutale del potere in una opera di purificazione morale resasi necessaria dall’ostinazione ottusa di coloro che non sanno riconoscere l’assoluta potenza di quella Legge. Non a caso quelli che si oppongono al regime degli ayatollah sono definiti “nemici di Dio”. In realtà, la moltiplicazione delle condanne a morte e la loro pubblica esecuzione sono l’ultimo disperato tentativo del regime di fermare il dilagare della protesta. Non deve sfuggire anche in questo caso la natura profondamente perversa di questa strategia: evocare lo spettro della morte per provocare angoscia e paralizzare la rivolta. In tutti i regimi totalitari questo schema è stato sempre utilizzato lucidamente: la minaccia incombente della morte deve poter frenare il dissenso, dissuadere la protesta, silenziare gli oppositori, spegnere la loro voce, riportare l’ordine. Nondimeno, questo uso sadicamente spettacolare della morte, esibita come un martello che deve schiacciare senza pietà gli oppositori al regime, rivela che la morte non èsolo uno strumento al servizio della repressione in condizioni di emergenza, ma il cemento armato che permea ogni regime totalitario. La perversione del potere non si misura solo a partire dalla sua azione arbitraria, ma anche dalla sua spinta alla morte. Il Novecento ne ha fornito drammatici esempi. In ogni fondamentalismo ideologico-religioso l’odio profondo per la vita appare in assoluto primo piano. Nel caso della teocrazia la tesi teologica che lo fomenta è semplice e drammatica nello stesso tempo: la vera vita non è questa, ma è quella di un mondo al di là di questo mondo, di cui questa vita è solamente una pallida ombra. La mortificazione della vita — di cui le donne sarebbero l’incarnazione maligna — sarebbe, di conseguenza, la sola possibilità per accedere alla salvezza, il suo sacrificio l’obolo necessario per essere accolti nel mondo vero che si situa al di là del mondo del mondo falso. L’odio per la vita è, dunque, la sola possibilità di guadagnare il rimborso nell’al di là per le sue privazioni vissute nell’al di qua. È lo spirito sacrificale che troviamo in tutti i totalitarismi. Ma è proprio in quelli teocratici che appare a volto scoperto: la Legge di Dio odia la vita perché non ci deve essere gioia in questo mondo. Per questa ragione il regime degli ayatollah non può esprimere alcuna tolleranza, pietas, capacità di ascolto. Mostrare la morte in piazza attraverso le impiccagioni significa piuttosto ribadire che la vita in quanto tale è un oggetto d’odio. Il Dio degli ayatollah è un Dio della guerra che combatte non solo contro le altre religioni, ma, innanzitutto, contro la vita stessa. Per questa ragione il maschilismo non è una appendice solo secondaria della teocrazia, ma un suo nucleo psichicamente più significativo: se la donna è l’incarnazione della vita e della libertà, l’odio per la vita impone il suo asservimento disciplinare, la sua sistematica mortificazione, la sua cancellazione. Il corpo della donna è, infatti, l’anti-Dio, l’anti-regime, l’antagonista irriducibile alla violenza del patriarcato. Per questa ragione la sua inferiorità ontologica e morale deve sancirne la dimensione impura e la sua necessaria purificazione. È l’inclinazione maschilista di ogni patriarcato: credere fanaticamente in Dio è un modo per rifiutare l’esistenza della donna, per continuare ad odiare la vita.

Gabriella Colarusso: " 'Subito le condanne', la minaccia del giudice per i ribelli dell’Iran"

Nella notte di Rasht, qualche centinaio di manifestanti tiene accesa la fiamma del movimento che da tre mesi chiede un cambio radicale verso la democrazia in Iran. Si radunano con il buio, cantano “libertà”, e lo stesso succede a Karaj e nel quartiere Ekbatan alla periferia di Teheran. vicino alla metro. Sono raduni di poche persone, clandestini, dopo un’ondata di repressione brutale: ieri era il primo di tre giorni di sciopero convocati per resistere alla mano dura delle autorità iraniane che cercano di piegare le proteste con arresti, proiettili, condanne a morte. Hanno scioperato anche alcuni medici dell’ospedale Rasoul Akram della capitale, che chiedono il pagamento dei salari arretrati e stipendi più alti. Gholamhossein Mohseni Ejèi, il capo della magistratura, da settimane parla apertamente di «agenti fomentati dall’esterno» e di facinorosi che vanno puniti senza esitazione, sebbene la legge iraniana preveda la presunzione di innocenza. Ieri ha emesso una serie di ordini operativi ai funzionari di polizia e ai magistrati chiedendo che si arrivi «all’esecuzione tempestiva e senza indugio delle sentenze definitive, astenendosi da ingiustificati ritardi», che servono come «deterrente»: «Le condanne per reati gravi devono essere documentate e motivate, ma per una sentenza definitiva non dovrebbeesserci alcun ritardo nell’esecuzione ». Una presa di posizione che arriva a una settimana dall’impiccagione in pubblico del 23enne Majidreza Rahnavard e a undici giorni dall’esecuzione di un altro manifestante di 23 anni, Mohsen Shekari. Già prima dell’esplosione del movimento pro-democrazia, Mohseni Ejèi, che è stato nominato a capo della magistratura da Raisi dopo la vittoria alle elezioni, si era conquistato una triste fama. A luglio l’Abdorrahman Boroumand Center for Human Rights e Amnesty International avevano denunciato l’enorme numero di sentenze di morte comminate in Iran, cresciute a un «ritmo orribile»: 251 impiccagioni confermate alla fine di giugno, anche se il numero reale potrebbe essere ancora più alto. Attivisti e difensori dei diritti umani temono ora che la pena capitale venga usata come clava per silenziare completamente il movimento. Nel braccio della morte ci sono già almeno 11 manifestanti accertati, ma potrebbero essere molti di più. Le ong come Human Rights Iran denunciano processi farsa celebrati senza il diritto a una giusta difesa e a porte chiuse.Mohammad Hosseini è un giovane arrestato a fine novembre e condannato a morte con l’accusa di aver partecipato a Karaj all’omicidio di un basiji, un membro delle forze paramilitari utilizzate per reprimere le proteste di piazza. Finora sono 66 gli agenti di sicurezza uccisi. Il suo avvocato, Ali Sharifzadeh Ardakani, ha detto di essere riuscito a vederlo la prima volta solo il 18 dicembre, dopo la condanna. Questo il suo racconto: «Ha detto di essere stato picchiato con gli occhi bendati, le mani e le gambe legate e preso a calci in testa fino a perdere i sensi. I suoi piedi sono stati picchiati con una sbarra di ferro, ha ricevuto scosse elettriche in varie parti del corpo. Non c’è alcuna base legale per usare le confessioni di un uomo che sono state ottenute sotto tortura». Le persone arrestate finora sono più di 18mila, e ci sono molte denunce di abusi e violenze subite dai manifestanti. Ieri laBbcha raccontato la storia di Hamed Salahshoor, un tassista di 23 anni che si era unito alle manifestazioni ed è morto in custodia il 26 novembre scorso. La famiglia ha fatto riesumare il cadavere. «La faccia era fracassata, il suo busto era stato ricucito» ha denunciato il padre all’emittente britannica. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres parla di repressione «inaccettabile. Stiamo assistendo a una massiccia violazione dei diritti umani, che condanniamo fermamente».

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