Il bambino che disegnava le ombre Oriana Ramunno
Rizzoli euro 18
L’arte di narrare storie
è sempre quella di saperle
rinarrare ad altri
Walter Benjamin
“Dopo l’”ultimo testimone”, nell’era della “post memoria”, ora che la Shoah è diventata uno degli eventi più testimoniati attraverso registrazioni audio e videointerviste, trascrizioni, memorialistica, diari, e una vicenda tra le più studiate dagli storici, la trasmissibilità dell’esperienza della Shoah – come per tutti gli eventi storici – avverrà attraverso il racconto” – scrive lo storico Simon Levis Sullam.
Si prende quindi coscienza del ruolo del racconto nel fare storia con la consapevolezza che accanto all’opera più tradizionalmente intesa degli storici, la conoscenza di quanto accadde durante il regime nazista, avverrà in futuro in forme narrative.
In questo solco tematico si inserisce il thriller storico di Oriana Ramunno, “Il bambino che disegnava le ombre” (Rizzoli), una storia coinvolgente che cattura il lettore con una cifra narrativa potente fin dalle prime pagine, lo mette dinanzi agli orrori dell’ideologia nazista e nel contempo fa intravvedere nell’epilogo la possibilità di una redenzione.
E’ il 23 dicembre 1943 quando Hugo Fischer, criminologo di punta della Kriminalpolizei arriva ad Auschwitz inviato dal capo del Dipartimento V dell’RSHA per indagare sulla morte di un medico delle SS, Sigismud Braun, un pediatra specializzato in malattie genetiche che lavorava a stretto contatto con Mengele. Lo accoglie un’atmosfera cupa, spettrale con la neve che cade incessante formando uno spesso strato sui tetti delle baracche e sugli alberi che circondano quel luogo di morte che è il campo di sterminio di Auschwitz. Benchè a Berlino avesse assistito alla partenza di migliaia di ebrei dalle stazioni di Grunewald o Anhalter con le loro valigie e la stella gialla appuntata sui cappotti, Fischer è totalmente impreparato alla vista della Judenrampe, all’odore di carne bruciata, all’arrivo di un convoglio merci con le famiglie ebree trascinate fuori dai vagoni, alle urla delle SS, ai latrati dei cani, alle violenze perpetrate nei confronti di donne, bambini, anziani, oltre che all’omicidio a sangue freddo di una neonata.
Hugo Fischer era stato avvisato “di limitarsi a fare il suo lavoro e di non fare troppe domande sul campo” eppure lui che a Berlino non si era mai opposto alle violenze dei nazisti, anzi nasconde nel cuore un terribile segreto per non aver protetto una ragazza, rimane sconvolto dinanzi alla crudeltà e al cinismo degli ufficiali delle SS.
E’ ancora frastornato quando l’Obersturmfuhrer Tristan Voigt lo accompagna a visitare la salma del dott. Braun ribadendo la necessità di “fedeltà e riservatezza perché il mondo non è ancora pronto a capire gli sforzi del nostro Fuhrer”. In apparenza il medico è morto soffocato da un morso di mela ma il Kommandant del campo vuole mettere a tacere alcune voci che hanno cominciato a circolare per questo è stato richiesto l’intervento di un criminologo esperto.
Una volta appreso che il corpo è stato rinvenuto dal piccolo Gioele, un gemello sotto la protezione di Mengele per i suoi occhi speciali, Hugo Fischer si reca alla camera ardente allestita in una delle stanze del Blocco 10 e qui conosce una serie di persone che in un modo o nell’altro potrebbero essere coinvolte nella morte del medico.
C’è Brunhilde Braun, la moglie che lavora a Birkenau con l’amica Anita Kunig, la quale supervisiona il lavoro al magazzino degli effetti personali, il dott. Carl Clauberg, un ginecologo crudele inviso per la sua arroganza agli altri medici, Osmund Becker, il giovane genetista aiutante del defunto Braun di cui Fischer nel corso delle indagini scopre una relazione segreta con una persona molto vicina al morto, le infermiere Betsy Angel, “una bambola dagli occhi languidi” col cuore di ghiaccio, e Adele Krause che già faceva parte del gruppo di lavoro di Braun prima di Auschwitz quando si occupava di eutanasia, Bethany Assouline, un’ebrea di cui Fischer coglie un guizzo di paura negli occhi torbidi e una “bellezza rovinata da qualcosa”.
Ma è l’incontro con Gioele Errera, il bimbo bolognese deportato ad Auschwitz con la famiglia, ad aprire la mente e il cuore del criminologo. Gioele ha tratteggiato in maniera accurata la scena del crimine e dai disegni che il piccolo gli mostra emergono molti dettagli e informazioni utili per le indagini. Fra loro nasce un delicato rapporto di amicizia che rende più facile all’investigatore sopportare l’inferno di Auschwitz e a Gioele coltivare la speranza di ritrovare tramite Fischer, un tedesco diverso dagli altri, i genitori e il fratello.
Consapevole di essere finito nell’”anus mundi” – espressione coniata nel 1942 da Heinz Thilo, medico delle SS per descrivere il campo di sterminio di Auschwitz oltre che titolo del libro di Wieslaw Kielar, prigioniero polacco ad Auschwitz-Birkenau – Hugo Fischer avvia, fra segreti inconfessabili, reticenze e misteriosi biglietti anonimi, un’indagine complessa sapendo che una buona riuscita avrà effetti positivi sulla sua carriera ma, nel contempo, se venisse alla luce la malattia genetica di cui è portatore e che lo rende dipendente dalla morfina sarebbe condannato all’eutanasia.
Fra i pregi del libro non c’è solo una trama dal ritmo inesorabile che cattura il lettore e pagina dopo pagina, seguendo le mosse di Fischer, lo sfida a trovare il colpevole fra una serie di personaggi ciascuno dei quali con un ottimo movente per uccidere Braun, perché Oriana Ramunno ci regala un’opera che, attraverso l’espediente di una indagine poliziesca, ricostruisce con estrema precisione e con un accurato lavoro di ricerca storica gli orrori compiuti nel campo di sterminio di Auschwitz: dalle torture agli esperimenti medici, dalle uccisioni di creature inermi per puro divertimento delle SS al costante annientamento della dignità umana.
Colpisce nelle pagine del romanzo la straordinaria capacità dell’autrice di pennellare, quasi si cimentasse in un disegno, i luoghi dello sterminio: la piazza dell’appello, la recinzione di filo spinato con la corrente elettrica per scongiurare fughe, il crematorio con il persistente fetore di carne bruciata, il Kanada dove venivano raccolti gli oggetti trafugati agli ebrei, le stanze dove si eseguivano le autopsie e gli esperimenti medici su cavie umane. Su tutto la bellezza della natura che Ramunno descrive in pagine di pura poesia e straordinaria forza narrativa sembra sfidare la ferocia degli aguzzini.
Un’ultima riflessione merita la figura del criminologo tedesco, così ben descritta dall’autrice fin nei risvolti più oscuri dell’anima che risvegliano laceranti sensi di colpa. Come molti tedeschi dopo l’avvento del nazismo Hugo Fischer è rimasto indifferente dinanzi ai crescenti soprusi dei nazisti, quell’atteggiamento vile di voltarsi da un’altra parte per non compromettere la carriera o una vita tranquilla che - ricorda nei suoi interventi Liliana Segre - ha permesso a un regime criminale di attecchire. Nel corso della settimana trascorsa ad Auschwitz Fischer, osservando con sgomento gli effetti di un’ideologia criminale su esseri umani innocenti ma anche il coraggio di chi nel campo, tedesco o ebreo, entra a far parte della Resistenza per salvare delle vite, prende coscienza che è giunto il momento di agire e nelle ultime sconvolgenti pagine che svelano, con un risvolto imprevedibile, la soluzione del mistero saprà riscattare la sua anima e ritrovare il rispetto di se stesso.
Il romanzo di Oriana Ramunno che appartiene a quel genere di libri che non ti abbandonano una volta terminata la lettura, nasce dai racconti ascoltati durante la sua giovinezza dallo zio Angelo, deportato nel campo di concentramento di Norimberga e testimone degli orrori del lager. Per questo in una fase in cui il ricordo della Shoah viene ereditato e rielaborato da testimoni indiretti, quelli che Raffaella Di Castro, docente di psicologia e filosofia, chiama “testimoni del non-provato”, “Il bambino che disegnava le ombre” è un’opera che ci ricorda che esiste un dovere che accomuna tutti gli esseri umani ed è quello di tenere viva, oggi più che mai, una memoria che rimuove l’oblio e si nutre di speranza.
Giorgia Greco