Riprendiamo dalla STAMPA di oggi 18/12/2022, a pag.23, con il titolo "L'inverno della Tunisia" il commento di Francesca Mannocchi.
Francesca Mannocchi
Il presidente Kais Saied
Ieri la Tunisia è tornata alle urne per eleggere il nuovo parlamento, il terzo dalla caduta di Zine el-Abidine Ben Ali dodici anni fa. Questa tornata elettorale, però, è stata molto diversa da quelle del 2014 e del 2019, segnata da una campagna elettorale inesistente che ha allontanato ancora di più i nove milioni di elettori dalla vita politica del Paese sempre più segnata dall'accentramento dei poteri nelle mani del presidente Kais Saied. La Tunisia è tornata anche in piazza, proteste e manifestazioni guidate da gruppi della società civile e partiti politici hanno portato migliaia di persone di nuovo nelle strade, esortando i cittadini a boicottare il voto. Il voto serve a sostituire il parlamento che ha guidato il Paese ed è stato a lungo un esempio per le democrazie e il pluralismo nel mondo arabo post rivoluzionario. Ma in base alla nuova costituzione voluta da Saied, la nuova camera non avrà poteri di supervisione e il suo ruolo legislativo servirà solo a consigliare o approvare le leggi promosse dal presidente stesso. Sono stati questi gli ultimi passi di un percorso durato tre anni, dal 2019, quando Saied è stato eletto fino alla redazione della nuova legge elettorale lo scorso settembre. Secondo la nuova legge elettorale vengono diminuiti i seggi, si vota per i singoli candidati e non più per le liste di partito, è stato vietato il finanziamento pubblico delle campagne elettorali e abolita la parità di genere che era stata introdotta nel 2016. Così ci sono state solo 122 donne sui 1.055 candidati a contendersi i 161 seggi dell'Assemblea. In un tale clima di controllo sul processo elettorale ai giornalisti stranieri è stato impedito di intervistare i singoli candidati, che possono parlare con la stampa locale e internazionale solo previa approvazione delle commissioni che, è facilmente immaginabile, non sono state amichevoli. Tutti questi motivi hanno portato dodici partiti, tra cui il partito islamista Ennahda, a boicottare le elezioni. Partecipare, hanno affermato, avrebbe normalizzato una situazione che sta diventando sempre meno democratica. Partecipare avrebbe significato ammettere che il Paese ha votato in un clima di trasparenza e libertà di espressione. Secondo le organizzazioni in difesa dei diritti civili e gli osservatori indipendenti il risultato delle elezioni, che si aspettano segnate da un alto tasso di astensionismo, sarà un parlamento farsa, a immagine e somiglianza di Saied, esito che sarà per loro l'ultimo chiodo sulla bara della democrazia tunisina. I futuri deputati, infatti, secondo i codici della nuova legge, non potranno controllare né censurare l'azione del governo, non potranno porre fine al mandato del Presidente, dovranno - nell'esame delle proposte di legge - privilegiare quelle presentate da Saied e saranno privati dell'immunità. Per capire come la Tunisia, per anni esempio della transizione riuscita dall'autocrazia alla democrazia sia arrivata fin qui è utile riavvolgere il nastro di almeno tre anni.
Il "colpo di stato costituzionale"
Kais Saied è stato eletto presidente nel 2019, si era presentato al Paese al grido di «la gente vuole». La gente voleva lavoro, redistribuzione della ricchezza, giustizia. E non voleva una cosa su tutte: la corruzione che modellava ogni aspetto della vita quotidiana. «La sovranità appartiene al popolo», aveva detto al tempo della sua campagna elettorale, «Tutto deve partire da loro», e così aveva vinto: promettendo più equità. Tra il 2020 e il 2021 il combinato della paralisi politica, la stagnazione economica, e la crisi da coronavirus, ha moltiplicato il numero di disoccupati e esasperato gli animi. La gente era spesso in piazza e le piazze spesso spezzate: da un lato gli oppositori del presidente preoccupati che Saied avrebbe minacciato le conquiste della democrazia tunisina, dall'altra una fetta di popolazione invece sosteneva la sua lotta alla corruzione. Un pezzo di Paese che, stanco delle promesse non mantenute di Ennahda, aveva bisogno di lavoro e aveva ricominciato a dare credito, piano piano, all'uomo forte. La gente impoverita, delusa da anni di inefficienza, aveva sempre meno fiducia nelle istituzioni democratiche e tornava in piazza chiedendo a Saied risposte decise, e lui dopo mesi di stallo politico, il 25 luglio del 2021 ha sospeso il Parlamento allora dominato dal partito di ispirazione islamista Ennahdha, destituito il primo ministro Mechichi. Due mesi dopo ha formalizzato i suoi pieni poteri con le "misure eccezionali". Saied aveva motivato le sue decisioni affermando che le crisi del Paese fossero così disastrose da necessitare una svolta drastica, così aveva esonerato il governo - sia ministri che funzionari - e ordinato mandati di arresto e restrizione ai viaggi esteri e agli spostamenti interni per parlamentari, giudici, avvocati, imprenditori uomini d'affari da lui accusati di corruzione. Allora Saied, professore di diritto, disse che le sue decisioni non erano contrarie alla Costituzione, spiegò anzi di avere agito secondo una interpretazione dell'articolo 80, una clausola di emergenza che, in situazioni di crisi estrema, prevedeva misure eccezionali. La durata massima avrebbe dovuto essere 30 giorni, però sono passati quasi due anni, la misura di emergenza non è mai finita e il parlamento è definitivamente sciolto. Prima Saied ha comunicato che avrebbe governato per decreto assumendo su di sé l'autorità esclusiva e poi ha piano piano preso il potere su di sé. «Saied ha condotto una campagna su una piattaforma di partito populista e ha promesso di proteggere la volontà del popolo contro la macchina corrotta della politica di partito consolidata - scrive Johannes Lang, ricercatore che si concentra sulla democratizzazione in Medio Oriente e analista per Foreign Policy -. Quando è arrivato il momento di eleggere un nuovo presidente nel 2019, i tunisini ne avevano avuto abbastanza dalla politica del consenso di Ennahda e Saied, non affiliato a nessun partito politico, ha vinto in maniera schiacciante. La storia della Tunisia è comune. Il populismo fiorisce quando i principali partiti politici convergono, facendo sembrare l'autoritarismo l'unica vera alternativa a un sistema politico corrotto». A febbraio scorso Saied ha sospeso il Consiglio giudiziario supremo del Paese, pochi mesi dopo, a luglio il Paese ha votato per la nuova costituzione che ha di fatto disintegrato una delle principali conquiste della Tunisia post 2011. La nuova costituzione concentra l'autorità nella figura di Saied, gli consente di revocare in qualsiasi momento il Parlamento che viene privato della possibilità di impeachment. Inoltre gli articoli prevedono clausole molto restrittive sulla sicurezza nazionale e la moralità che danno allo Stato - quindi a Saied - potere di limitare i diritti civili. Già nell'ultimo anno, la polizia e i servizi segreti tunisini hanno arrestato molti giornalisti e attivisti politici con accuse di corruzione o terrorismo. Il professore di diritto Sadok Belaid, che aveva supervisionato una delle prime stesure della nuova carta costituzionale salvo poi prendere le distanze dal testo, intervistato da Reuters ha detto che le nuove norme «potrebbero spianare la strada a una vergognosa dittatura». Il passo finale del percorso dell'autocrate Saied è stata la legge elettorale di settembre che ha portato al voto di ieri, tre anni dopo la sua elezione a presidente. La lotta alla corruzione e alla crisi economica resta un miraggio, ma quello che Saied ha di certo ottenuto è la centralizzazione dei poteri nelle sue mani.
Voto e crisi economica
La deriva autoritaria di Saied è avvenuta in un Paese che vive una crisi economica che si aggrava anno dopo anno, in cui il trenta per cento dei giovani non lavora. Secondo l'Istituto nazionale di statistica tunisino, l'inflazione ha raggiunto il livello record del 10%. La pandemia e le conseguenze dell'invasione russa in Ucraina hanno portato a insostenibili aumenti del prezzo del grano e delle materie prime importate, situazione che pesa ancora di più sulle spalle dei tanti tunisini che vivono nelle zone periferiche del Paese, e per cui gli effetti della rivoluzione non si sono mai visti. È a loro che Saied ha saputo parlare per essere supportato nelle sue decisioni giudicate sulle prime impopolari ma necessarie e irrimandabili. Oggi quel consenso che aveva stupito i suoi detrattori, primi tra tutti il partito Ennahda, appare ancora solido nei cittadini che hanno accettato la sua retorica anticorruzione, ma comincia a mostrare segni di cedimento tra molti politici che avevano sostenuto la sua risolutezza due anni fa ma che oggi vedono in Saied una minaccia per un sistema democratico inclusivo e sviluppato. Non è ancora chiaro, per esempio, se arriverà davvero il necessario prestito di quasi due miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale. A ottobre l'Fmi aveva annunciato un accordo preventivo per un fondo con la Tunisia necessario per affrontare la crisi economica che sta colpendo il Paese. Per ottenere i fondi, però, il governo deve mettere in atto una serie di misure: ridurre la spesa pubblica per affrontare il deficit di bilancio, riformare la tassazione, aumentare le entrate e modificare la governance del servizio pubblico e delle imprese statali. Al momento, però, l'accordo è ancora in attesa di approvazione da parte del Comitato Esecutivo e i cittadini non sanno come e quanto le misure avranno impatto sulla loro capacità di sussistenza. Il Fondo monetario internazionale «non può risolvere i problemi dei tunisini» e «nessuna parte straniera può imporre soluzioni» alla Tunisia, ha detto il presidente Saied in una dichiarazione a margine della sua partecipazione al vertice Usa-Africa a Washington, riportata da agenzia Nova. Saied non può permettersi di perdere il consenso della gente e la gente non può permettersi altri rincari che abbassino ancora il loro potere d'acquisto. Così, nelle ultime settimane, il presidente tunisino ha cominciato a dare la colpa dei rincari e della mancata risoluzione della crisi economica agli "speculatori", responsabili secondo lui di aggravare la vita delle fasce più vulnerabili del Paese. Ennesima piroetta di un presidente che non riesce a gestire la sfida delle crisi che aveva promesso di risolvere al prezzo di una svolta autoritaria. La Tunisia è tornata al voto in una data simbolica. Ieri erano esattamente dodici anni da quando Mohamed Bouazizi si immolò innescando la rivoluzione che avrebbe portato alla caduta del regime. Sono lontani i giorni delle proteste della rivoluzione dei gelsomini, così come sembra lontanissimo il 2015, anno in cui il "Quartetto per il dialogo nazionale tunisino" vinse il Premio Nobel per la Pace. La domanda, all'indomani dal voto è quale sarà il futuro della Tunisia, se riuscirà a salvare i semi piantati più di un decennio fa o se si lascerà vincere dal ritorno al passato, da un autoritarismo che sta cercando di zittire giornalisti, opposizione e società civile, nel più generale silenzio dell'Occidente colpevolmente distratto dalle sorti del Nordafrica.
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