Israele rischia di dover ricorrere alle seste elezioni parlamentari per poter avere un proprio governo? È la possibilità che Marco Paganoni paventa nel suo importante quanto allarmante articolo pubblicato su “Informazione corretta” dell’11 dicembre scorso (https://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=88310). Se gli schieramenti antagonisti del Likud non dovessero accordarsi con il partito di Netanyahu per mere questioni di bottega, operando in questo modo un ricatto politico nei confronti dei vincitori, la situazione per la democrazia israeliana potrebbe complicarsi. Il disamore dell’elettorato israeliano nei confronti della politica in senso lato potrebbe assumere risvolti negativi per la stabilità della democrazia dello Stato ebraico, a cominciare dall’aumento progressivo dell’astensionismo. Peraltro, sostiene Sergio Della Pergola, citato da Paganoni nel suo articolo, il movimento pacifista israeliano è andato in bancarotta a causa del persistere del fondamentalismo palestinese, che non ha mai rinunciato all’idea della distruzione di Israele, cosa che era facilmente prevedibile. Né, tantomeno, il fondamentalismo palestinese ha ottenuto un qualche risultato significativo. Anzi. Pacifisti, da una parte, fondamentalisti, dall’altra, sono rimasti con la bocca asciutta.
Benjamin Netanyahu
Questa realtà, insieme ad altri fattori, ha fossilizzato la politica israeliana in tre tronconi, di cui due – l’estrema destra e il campo politico che si riferisce a Yair Lapid e a Benny Gantz – non intendono allearsi con Netanyahu, a meno che non ottengano posizioni importanti in seno all’eventuale governo, in grado di condizionare la leadership di Netanyahu. Insomma, la vittoria di Bibi rischia di divenire un fuoco di paglia. Peggio, rischia di rafforzare quella parte che, soprattutto a livello internazionale, ripete da anni il ritornello che la “vera”, “unica” soluzione è la creazione di due Stati, uno ebraico, l’altro palestinese. Soluzione che la storia ha dimostrato impossibile da realizzarsi. Nello stesso tempo, però, lo stallo politico israeliano, che si ripete da più elezioni parlamentari senza esito sul piano della costituzione di un governo, sta producendo un calo di prestigio verso le istituzioni politiche di Israele a livello internazionale.
Sul piano internazionale tutto questo si va traducendo paradossalmente nella progressiva attribuzione a Israele – ed esclusivamente a Israele – della non-volontà di fare quei passi necessari per la soluzione definitiva della questione israelo-palestinese; tanto che, negli ultimi giorni del suo mandato come capo del governo, Yair Lapid si è lasciato andare a sostenere pubblicamente che la soluzione della questione non può che essere quella dei “due popoli-due Stati”. Una soluzione alla quale egli stesso non crede. Comunque, è innegabile che, per la prima volta nella sua giovane storia, Israele si trovi oggi in una condizione di prolungato stallo politico che avvantaggia i suoi detrattori a livello internazionale e i suoi nemici nello scacchiere mediorientale.
A tutto questo occorre aggiungere il ruolo centrale che Israele gioca negli “Accordi di Abramo”. Essi devono essere alimentati da un continuo confronto politico con i Paesi arabi sunniti che lo hanno firmato. In mancanza di un governo stabile, Gerusalemme rischia di perdere credibilità e prestigio proprio verso i cofirmatari arabi, presso i quali si fa sempre più pressante la presenza della diplomazia di Teheran. Gli “Accordi di Abramo” hanno rappresentato un grande esito politico dell’ultimo governo Netanyahu, un risultato che ha conferito a Israele una credibilità a livello regionale che ha avuto i suoi positivi riflessi sul piano internazionale. Ora, però, il protrarsi della situazione attuale di blocco politico-parlamentare rischia di compromettere alla lunga questi successi.