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La Repubblica Rassegna Stampa
11.12.2022 Asef Bayat: 'La rivolta ha unito popolo e diaspora e questo Iran globale ora sfida la teocrazia'
Lo intervista Paolo Mastrolilli

Testata: La Repubblica
Data: 11 dicembre 2022
Pagina: 16
Autore: Paolo Mastrolilli
Titolo: «Asef Bayat: 'La rivolta ha unito popolo e diaspora e questo Iran globale ora sfida la teocrazia'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 11/12/2022, a pag.16, con il titolo "Asef Bayat: 'La rivolta ha unito popolo e diaspora e questo Iran globale ora sfida la teocrazia' ", l'intervista di Paolo Mastrolilli.

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Paolo Mastrolilli

Asef Bayat:
Asef Bayat

Asef Bayat è convinto che le proteste abbiano creato “un nuovo Iran globale”, unificando i cittadini che vivono nel Paese e la diaspora. Perciò questo movimento è diverso da tutti gli altri e secondo il professore della University of Illinois rappresenta una potenziale minaccia esistenziale per il regime. Cosa intende con “Iran nuovo e globale”? «Dalla rivoluzione del 1979, l’Iran ha prodotto una diaspora che vive in diverse parti del mondo. Nel corso degli anni c’è stata una sorta di tensione tra gli iraniani in Iran e quelli della diaspora, anche se conservano il sogno di tornare. L’attuale rivolta ha riunito questi segmenti della popolazione come mai prima. Sembra che le comunità iraniane all’estero siano diventate un’estensione dell’Iran, un Iran globale. Ancora più importante, la rivolta sembra aver unito diversi segmenti della popolazione: uomini e donne, vecchi e giovani, poveri e ricchi, etnie e comunità religiose diverse, in un modo senza precedenti, attorno all’appello “Donne, Vita, Libertà”. In questo senso è nato un nuovo Iran che vuole liberarsi dallo stato di soggezione».

Cosa significa per i possibili esiti delle proteste? «In primo luogo che a differenza delle precedenti rivolte, i diversi gruppi hanno trasceso le rivendicazioni particolaristiche a favore di un bene più grande. Ciò conferisce al movimento un carattere rivoluzionario. In secondo luogo, riconosce la “questione femminile” come tema politico centrale e le donne come soggetto di liberazione per tutti, rendendo la rivolta singolare».

È una potenziale minaccia esistenziale per il regime? «Potenziale, sì. Perché lo slogan “Donne, Vita, Libertà” contraddice il nucleo dell’ideologia del regime: la misoginia strutturale, la colonizzazione della vita e l’acuto dispotismo, tutti imposti facendo riferimento a “valori divini”. Il movimento sembra andato oltre il voler riformare il regime, come negli anni del presidente Khatami. Sembra volere un cambio di regime. Ma è una vera minaccia esistenziale? Non lo sappiamo. Dipenderà da quanto tempo potrà portare avanti le proteste, quanto si organizzerà, e fino a che punto potrà mobilitare operai, insegnanti, negozianti o persone della classe clericale e riformista. Dipenderà anche da quanto il regime estenderà la violenta repressione, o se ci saranno divisioni nei suoi ranghi».

Lei ha appena pubblicato il saggio “Revolutionary Life: The Everyday of the Arab Spring” e vede somiglianze con la Primavera araba, che però non ha portato la democrazia. In Iran può essere diverso? «È vero, la primavera araba è stata in generale un fallimento per la transizione verso la democrazia, forse con l’eccezione di Tunisia e Sudan. Oggi in Iran non sappiamo dove porterà la rivolta, se il regime riuscirà a schiacciarla. Ma anche se le proteste rallentassero, un altro fattore scatenante probabilmente ne aprirebbe un altro ciclo. L’opposizione non se ne andrà finché il regime rimarrà lo stesso. Però per trasformarsi politicamente, dovrà organizzarsi e sviluppare una visione del futuro ordine sociale e una strategia su come raggiungerlo».

Quanto è significativo che le donne guidino le proteste? «Forse per la prima volta in Iran, e probabilmente ovunque, vediamo il riconoscimento della “questionefemminile” come tema centrale di un movimento rivoluzionario nazionale. La liberazione delle donne potrebbe portare a quella di altri gruppi elettorali oppressi, come gli uomini demascolinizzati, i giovani emarginati, le minoranze religiose e i cittadini politicamente repressi dai governanti clericali patriarcali. Il riconoscimento stesso che le donne sono centrali è un cambiamento significativo nella soggettività iraniana e dà al movimento una qualità unica».

Come interpreta la presenza di tanti giovani nelle strade? «La colonizzazione della vita da parte del regime ha colpito le donne e i giovani più di altri. Vuole microgestire la vita delle persone: cosa indossare, dove andare, cosa guardare o leggere, pregare o non pregare. I governanti clericali affermano di voler “progettare la cultura” a loro immagine. Per decenni, molti hanno sentito che “l’ingegneria culturale” del regime li ha privati del semplice “essere giovani”. Non c’è da stupirsi che chiedano di riprendersi la loro giovinezza. Allo stesso tempo, la cattiva gestione economica ha privato molti giovani della speranza di una felice transizione verso la vita adulta. Sensazione devastante quando la maggior parte dei giovani è istruita e consapevole di tante cose buone nel mondo (beni di consumo, alloggio, viaggi, rispetto) e quanto ne sono privati. Questa sensazione è un sintomo della “classe media povera”, che gioca un ruolo chiave nella politica rivoluzionaria nel Medio Oriente di oggi».

Cosa potrebbero fare i Paesi occidentali, e come definirebbe il successo di questo movimento? «Abbiamo già visto un’incredibile solidarietà internazionale. L’hashtag Mahsa Amini è stato utilizzato più di 100 milioni di volte. Tale solidarietà ha rafforzato le donne e gli uomini in lotta nella speranza di poter reclamare le loro vite. È improbabile però che questa speranza possa realizzarsi senza un cambiamento significativo, una profonda trasformazione politica e strutturale».

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