Iran, sale il livello della repressione: 11 condannati a morte dal regime Due servizi di Gabriella Colarusso
Testata: La Repubblica Data: 10 dicembre 2022 Pagina: 24 Autore: Gabriella Colarusso Titolo: «Iran, sale il livello della repressione. Pena capitale per 11 manifestanti - La persecuzione dei rapper, Teheran silenzia la protesta»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 10/12/2022, a pag.24, con il titolo "Iran, sale il livello della repressione. Pena capitale per 11 manifestanti, la cronaca di Gabriella Colarusso; a pag. 25, il suo articolo dal titolo "La persecuzione dei rapper, Teheran silenzia la protesta".
Ecco gli articoli:
"Iran, sale il livello della repressione. Pena capitale per 11 manifestanti"
Gabriella Colarusso
Moshen Shekari è stato sepolto ieri: nel cimitero Behesht-e-Zahra di Teheran c’erano pochi familiari, all’esterno la strada era blindata da un ingente dispiegamento di forze di sicurezza. Mohsen aveva 23 anni, è il primo manifestante giustiziato in Iran dopo quasi 3 mesi di proteste e un processo che tutti gli avvocati indipendenti e le organizzazioni per i diritti umani hanno definito ingiusto e non equo. Ma nonostante 470 morti, le condanne delle cancellerie occidentali, delle Nazioni Unite e la mobilitazione popolare, dall’establishment arrivano messaggi che fanno presagire una repressione ancora più dura. Ieri l’agenzia di stampa governativa Fars ha riferito le parole di uno dei giudici della Corte suprema: «La magistratura ha compiuto il primo passo per assicurare alla giustizia i rivoltosi per le loro azioni, eseguendo il verdetto di Mohsen Shekhari. Questo tema diventerà più importante nei prossimi giorni. Shekhari aveva un’arma e ha ferito un poliziotto oltre ad aver bloccato la strada. La condanna di questa persona è la morte ed è diversa dalla vendetta». «L’impiccagione di Shekari ha chiaramente come proposito di generare paura negli altri manifestanti », dice il commissario Onu per i diritti umani, Volker Turk. Ed è il timore di molti in Iran in queste ore. Nelle prigioni ci sono 18mila persone arrestate negli ultimi tre mesi, «almeno 11 sono state condannate a morte», conferma a Repubblica Hadi Ghaemi, direttore del Center for Human Rights Iran, una organizzazione non governativa di base a New York che lavora con una rete di ricercatori e attivisti sul terreno che si occupano di verificare gli abusi dei diritti umani. Almeno tre condanne a morte sono state decise per la morte di un basiji, un membro della milizia paramilitare usata per reprimere le manifestazioni, avvenuta a Karaj durante la cerimonia in ricordo di Hadis Najafi al 40esimo giorno dalla sua uccisione. A differenza delle precedenti ondate di protesta, questa volta il numero dei morti tra le forze di sicurezza è più alto: almeno 66 secondo i calcoli dell’analista Ali Alfoneh, la maggior parte dei quali nel Balucistan e nel Kurdistan. Per i fatti di Karaj tra i condannati a morte c’è il medico Hamid Ghare- Hasanlou, e la sua è una storia drammaticamente esemplificativa «di un processo farsa - dice Ghaemi - : era corso sul posto per aiutare un chierico che era stato ferito, ma i testimoni, compreso lo stesso chierico, non sono stati ascoltati». Operato in ospedale perché gli sono collassati i polmoni e aveva le costole rotte, ha saputo al risveglio della sua condanna a morte. Alla moglie Farzaneh hanno dato 25 anni di carcere. Come lui sono stati condannati a morte anche Mohammad Mehdi Karami, 22 anni, un karateka, e Hossein Mohammadi, 26 anni, attore di teatro. «Questi processi non sono pubblici, gli imputati non possono scegliere avvocati indipendenti, le uniche prove sui cui si basano i verdetti sono spesso le confessioni estorte con la tortura, cosa espressamente vietata dalla legge: quello che succede nei tribunali in Iran non rispetta gli standard internazionali ma nemmeno la Costituzione iraniana», denuncia Ghaemi. «Le accuse con cui vengono condannati come “corruzione sulla terra” o “inimicizia/guerra contro Dio” sono totalmente arbitrarie». A volte i processi durano pochi mesi, altre anche pochi giorni. Ieri il presidente Raisi ha promesso che la magistratura continuerà a identificare, processare e punire i «rivoltosi», incurante delle critiche internazionali e interne. Sempre ieri ha parlato dai domiciliari Mirhossein Mousavi, ex primo ministro dell’Iran e leader dell’Onda verde, il movimento di protesta del 2009: «Impiccagioni e spari non fermeranno il movimento del popolo per la libertà», ha detto. La dissidenza interna viene silenziata. La nipote di Khamenei, Farideh Muradkhani, che aveva criticato il governo e chiesto la fine del “regime”, è stata condannata a 3 anni di carcere.
"La persecuzione dei rapper, Teheran silenzia la protesta"
Ali Khamenei - le proteste delle donne iraniane
«Spero in un giorno in cui la povertà e la miseria saranno sradicate dal mio amato Iran», canta Yasin, in uno dei suoi ultimi singoli, Haji,uscito a maggio. Yasin è Saman Seyedi, un rapper di 27 anni nato a Kermashah, nel kurdistan iraniano, che vive a Teheran e ha fatto appassionare migliaia di ragazzi e ragazze con i suoi versi di protesta per «le sofferenze del popolo», contro «l’oppressione», ma anche di «amore perl’Iran». L’ultima foto che la sua famiglia ha potuto vedere risale al 4 novembre, è quella dell’unica udienza celebrata in tribunale nel processo in cui è imputato: aveva la tesa curva sulle ginocchia, le mani in faccia mentre il giudice leggeva il capo d’imputazione, “Guerra contro Dio”, l’accusa che nel codice penale iraniano può significare pena capitale. Ieri, sua madre ha lanciato un appello disperato: «Hanno condannato a morte mio figlio. Mio figlio è un artista, non è un rivoltoso. In quale parte del mondo le persone vengono uccise per aver bruciato un bidone della spazzatura? Non ha potuto scegliersi neppure un avvocato. Per l’amor di Dio, aiutateci». Saman era stato arrestato in casa a metà ottobre e portato nel famigerato carcere di Evin dopo essersi unito alle proteste, come tanti altri artisti iraniani, e soprattutto come tanti rapper, diventati la voce di questo autunno di ribellione e di aspirazioni democratiche. Dietro le sbarre, a rischio di condanna a morte, ci sono il famoso rapper 32enne Toomaj Salehi, i cui canali social son diventati una piattaforma di organizzazione per il movimento pro-democrazia, accusato di “corruzione sulla terra” e “crimine contro la sicurezza”, e Behrad Ali Konari, 28 anni, rapper di Ahwaz, città del Khuzestan. Il rap «è molto popolare in Iran perché è molto vicino alla cultura persiana, che ha una delle sue principali espressioni artistiche nella poesia, amata in tutto il mondo», ci dice Nahid Siamdoust, professore associato di Studi sul Medio Oriente all’università di Austin, in Texas,esperta di musica iraniana e autrice diSoundtrack of the Revolution: The Politics of Music in Iran. Molto diffuso tra i giovani iraniani dagli inizi degli anni Duemila il rap è diventato rapidamente «uno dei principali linguaggi della protesta», la sua colonna sonora, «perché ha un format che permette ai suoi autori di veicolare molti contenuti e anche per la sua storia» di ribellione. Il rap «non ha mai ricevuto permessi per le registrazioni in Iran come altre forme di musica», spiega Siamdoust, e resta una musica di frontiera, clandestina, di contestazione politica. Hichkas, considerato il padre del rap iraniano, fu costretto all’esilio dopo le proteste dell’onda verde nel 2009, come la famosa rapper iraniana Justina, anche lei costretta a emigrare dopo essere stata arrestata a causa del divieto per le donne di cantare in pubblico. Ad aprile, 39 rapper da tutto l’Iran pubblicarono Khanevadegi 2 (Famiglia 2, in farsi), un progetto musicale collettivo in cui ogni artista, da una diversa zona del Paese, rappava con il proprio dialetto, usando campionature mixate con suoni della tradizione locale. Un atto d’amore nei confronti della diversità e dell’unità dell’Iran, registrato, in segreto, con due anni di lavoro.
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