Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 09/12/2022, a pag. 17, con il titolo "Azar Nafisi: 'Noi iraniane vittime di Apartheid ma il regime cadrà'" l'intervista del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Azar Nafisi
«L’Iran di oggi è come il Sudafrica dell’apartheid, da noi il razzismo è contro le donne ma il regime perderà anche questa volta». Azar Nafisi, scrittrice iraniana in esilio ed autrice di best seller come “Leggere Lolita a Teheran”, coglie l’occasione della sua presenza a Roma per “Più libri più liberi” e viene in visita alla redazione del nostro giornale. Si unisce alla riunione di redazione. Si informa sugli ultimi eventi in Iran e poi sottolinea l’importanza del ruolo della libera stampa nei Paesi democratici «perché fa sentire le donne meno sole». E nell’intervista che segue, con voce tenue ma ferma, spiega quale è la genesi del coraggio di chi sfida la teocrazia iraniana togliendosi il «velo dell’oppressione».
Perché una donna trova dentro di sé la forza di sfidare l’hijab? «Perché questo è un regime che sfida e ha sfidato la nostra stessa esistenza di donne. Non è solo una questione politica è una questione esistenziale e fin dall’inizio della Repubblica Islamica, prima di avere la nuova costituzione loro hanno cancellato le leggi di protezione familiare che davano alle donne diritti e protezione a casa e fuori. L’ayatollah Khomeini l’8 marzo 1979 provò a rendere il velo obbligatorio. Ma all’epoca decine di migliaia di donne scesero in piazza. Il loro slogan era “la libertà non è né orientale né occidentale, la libertà è globale”. Questo accadde all’inizio della rivoluzione e come donna la sensazione fu che stavo perdendo me stessa. Se non potevo scegliere cosa indossare, come parlare, come sentire, come connettermi con altra gente, allora avrebbe significato che non ero più io. Quindi mi sento di dire che le donne stanno lottando per la loro vita».
Che rapporto avevano le donne col velo prima della Repubblica Islamica? «Il governo non se ne occupava, non metteva bocca su quel che le donne indossavano. Eravamo libere. Avevo parenti che lo indossavano a cui eravamo molto vicini ed erano donne brillanti e intelligenti come tutto il resto delle donne iraniane. Non c’erano problemi. Mia nonna era una musulmana ortodossa e mia madre non indossava mai il velo. Eppure vivevano fianco a fianco. Mia nonna diceva che il vero Islam non forza le donne a indossare il velo».
Perché per la teocrazia iraniana il velo obbligatorio è così importante? «È un efficace mezzo di controllo. In pratica ci dicono “non possiedi te stessa”, “non possiedi il tuo corpo: siamo noi i tuoi padroni, ti diciamo cosa fare”. È una lotta per il potere. Questo è il motivo per cui oggi indossare il velo è diventato un simbolo, una dichiarazione a favore o contro il regime. Il regime è un sistema totalitario, che impone una divisa ai suoi cittadini, che controlla attraverso la repressione e ci porta via la nostra identità nazionale e individuale».
Questa è la genesi della rivolta delle donne? «Quello per cui stiamo lottando non è a favore o contro il velo, ma libertà di espressione e libertà di scelta». Chiunque venga in Iran percepisce immediatamente l’energia delle donne. Il loro carattere è una peculiarità del Paese. Dove si origina? «L’Iran ha una storia antica che va indietro fino alla cultura romana. Gli iraniani sono un mix culturale, ma restano fedeli all’immagine dell’Iran nella sua interezza, l’Iran preislamico e post-islamico. Questo gli dà un senso di identità. Attraverso i secoli per esempio gli iraniani hanno continuato a festeggiare il capodanno secondo la tradizione zoroastriana. All’inizio Khomeini e gli altrileader religiosi provarono a dire che era sbagliato. Ma gli iraniani non hanno ascoltato. E infatti si festeggia il 21 marzo, secondo il calendario zoroastriano e anche con più clamore, proprio perché il governo diceva che non si doveva fare. Questo sfidare il governo, non solo politicamente, ma in termini culturali e di identità nazionale, va avanti da 43 anni».
E ora come fa la rivolta a continuare? «Questa generazione, paradossalmente è quella dei figli della rivoluzione. Non hanno visto come era prima. Eppure le loro mamme, nonne e bisnonne lo ricordano bene. E a casa vedono che ci sono due Iran, quello privato e quello pubblico imposto dalla Repubblica Islamica. È questa giovane generazione che non vede futuro per sé stessa all’interno del sistema».
Perché il regime non riesce a domarla con la repressione? «Non riesce perché l’unica lingua che usa è la forza. Per questo regime, come per qualunque altro regime totalitario, riforme significa rivoluzione. Non possono cedere di un millimetro perché poi si vorrà di più e di più. Non puoi essere un po’ conciliante, devi essere totalitario. Vedono la loro sopravvivenza nell’eliminazione delle voci delpopolo iraniano. Come ho già detto, questa non è una lotta politica, ma esistenziale. Per il regime come per il popolo è una lotta per la sopravvivenza. Se fosse stata solo una rivolta politica, sarebbe stato facile prendere i leader dei gruppi politici ed ucciderli».
E invece è una battaglia per i diritti… «L’Iran di oggi è come il Sudafrica dell’apartheid. Il razzismo in Sudafrica era contro i neri, in Iran oggi è contro le donne. Ci sono migliaia di persone che scendono in piazza e non puoi certo ucciderle tutte. E anche se ne uccidi qualcuna ce ne sono ancora altre. E in questo modo il regime sta spingendo sé stesso contro il muro. Non può farcela. Imploderà come avvenuto con il Sudafrica davanti alla sfida di Nelson Mandela».
Come vede l’ondeggiare del regime? Parlano con voci diverse, fanno timide aperture ma poi tornano indietro. Che succede a Teheran? «Le contraddizioni ci sono state fin dall’inizio all’interno del regime e con le proteste delle donne ci sono state anche defezioni interne al regime. Anche queste crepe ricordano il Sudafrica dell’apartheid, quando l’élite bianca iniziò a dividersi».
Come possono le democrazie aiutare le donne iraniane? «Parlando di loro. Perché il regime gli dice in continuazione che sono sole, nessuno al mondo si interessa a loro. È una guerra psicologica. Se l’opinione pubblica nei Paesi liberi parla di loro, compie l’opera più decisiva, importante. Non farle sentire sole. Per questo sono importanti eventi di solidarietà come quello in programma domenica al Teatro Parenti di Milano che voi avete organizzato».
Perché alla fine degli anni Novanta lasciò l’Iran? «Avevo raggiunto il punto in cui non potevo restare, dovevo essere sincera con me stessa. Non potevo vivere con quella censura, mi faceva odiare me stessa. Compresi che venendo via avrei potuto avere un ruolo e dare voce all’altro Iran ma mi sono anche sentita in colpa. E ciò è vero anche ora, perché vivo al sicuro. Mentre queste giovani persone vengono uccise ogni giorno. Il mio cuore si spezza ogni giorno».