'Stupore', di Zeruya Shalev Recensione di Giorgia Greco
Testata: Informazione Corretta Data: 04 dicembre 2022 Pagina: 1 Autore: Giorgia Greco Titolo: «'Stupore', di Zeruya Shalev»
Stupore Zeruya Shalev Traduzione di Elena Loewenthal Feltrinelli euro 19,00
“La scrittura è dolore e fatica, ma la letteratura serve a riparare l’universo”
I libri di Zeruya Shalev, autrice israeliana pluripremiata, considerata da molti autori una vera maestra per la sua capacità di indagare l’animo umano, di scavare nelle passioni e di coltivare la memoria, non si leggono d’un fiato. Perché ogni pagina va interiorizzata, assaporata con lentezza e si termina la lettura con la consapevolezza di aver vissuto un’esperienza emotiva e intellettuale unica. Ne deriva che ogni nuovo lavoro di Zeruya Shalev è un’opera d’arte, cesellata con perizia, che non si dimentica.
Nata nel 1959 nel kibbutz Kinneret, ha svolto studi sulla Bibbia e sulla Sacra Scrittura, oltre a dedicarsi a libri per bambini e a opere di poesia.
Dopo il primo romanzo “Una relazione intima” (Frassinelli, 2000) con cui è stata insignita del Golden Book Prize e si è fatta conoscere al pubblico italiano, sono seguiti altri libri in cui emergono straordinarie figure femminili, “Una storia coniugale” (Frassinelli, 2001), “Dopo l’abbandono” (Frassinelli, 2007) in cui l’autrice si confronta con le difficoltà di rapporti frantumati e lacerati nei sentimenti. Capace di sondare gli stati d’animo più nascosti e di raccontare con prosa lirica e introspettiva sia le tensioni fra uomo e donna sia i conflitti fra genitori e figli, pubblica nel 2013 con Feltrinelli “Quel che resta della vita” e nel 2016 “Dolore” lo straordinario romanzo, vincitore del Premio Adei Wizo Adelina della Pergola e del Premio Jan Michalski, in cui attraverso la figura di Iris ripercorre il dramma del grave attentato terroristico al quale è sopravvissuta nel gennaio 2004. Qui la casualità della vita e della morte entrano in modo prepotente nel romanzo per raccontare un “dolore”, quello della protagonista, che non è solo fisico ma anche spirituale.
Il dolore è ancora al centro del suo ultimo romanzo “Stupore” (Feltrinelli) nelle librerie in questi giorni. Come ha anticipato in un’intervista, Shalev è convinta che “nel dolore si cresca, dal dolore si apprenda e dal dolore si possa diventare più saggi e capaci di vivere. Per questo sono attratta dalle famiglie infelici e sono sempre alla ricerca delle difficoltà, curiosa di analizzare gli scontri, i problemi”.
Protagoniste del romanzo sono due donne: Atara, un’architetta di cinquant’anni che si occupa di restauro conservativo e vive a Haifa con il secondo marito Alex, docente di studi sociali, e il figlio Eden tornato dopo una missione nell’esercito con un trauma profondo; Rachel, un’anziana combattente del Lechi, gruppo paramilitare che combatteva gli inglesi, profondamente devota alla causa e all’uomo che amava, ha vissuto un passato controverso che non dimentica. Ora vive nell’insediamento di Maale Adumim sola con i suoi ricordi.
Sono due donne ferite dalla vita anche se in modo diverso ma è lo stesso uomo che ha lacerato il loro cuore: Menachem Rubin (il cui soprannome nella banda Lechi era Yefte), ora un famoso neurologo, è stato il primo marito di Rachel e padre di Atara. Ha abbandonato la moglie per un evento drammatico che ha sconvolto la sua vita, ha studiato all’estero poi si è sposato e ha chiamato la prima figlia Atara, un nome dolorosamente collegato al suo passato di militante nella Resistenza israeliana.
Atara che, a differenza della sorella, non si è mai sentita amata dal padre, piuttosto rifiutata, conserva nell’animo un nucleo di dolore e la consapevolezza che alla base c’è un mistero che vuole scoprire. Nell’adolescenza aveva saputo per caso dell’esistenza di questa prima moglie del padre e alla morte del genitore si mette alla ricerca dell’anziana donna.
Dopo un incontro casuale con Rachel durante una rappresentazione teatrale, Atara decide di rivederla per conoscerne la storia, capire il rapporto con il padre e le ragioni di un abbandono che sembra inspiegabile. Incontrando Rachel, restia ad aprire il suo cuore e a svelare i segreti dolorosi del passato, Atara scoprirà di chi porta il nome, indagherà il senso profondo della sua origine e troverà in Rachel una figura protettiva. Nella condivisione del dolore e nella consapevolezza che il loro destino è intrecciato troveranno l’una nell’altra consolazione e conforto. A capitoli alterni si dipana il racconto delle due donne e pagina dopo pagina il lettore si immerge nel racconto delle loro esistenze fatte di difficoltà, di lacerazioni dell’anima, di momenti di lutto, di gioia, di solitudine, di scelte che hanno segnato nel bene, ma più spesso nel male, la vita dei loro familiari.
La società israeliana così magistralmente descritta è presente nei traumi e nelle contraddizioni, nel desiderio di rinascita e nella paura del futuro.
Con Rachel, una donna coraggiosa che appartiene alla generazione dei combattenti, molto più concentrata sull’ideologia che sull’amore per i propri familiari, l’autrice getta uno sguardo su un gruppo di giovani che hanno dato la vita per liberare il paese dai nemici “con la forza della volontà e dell’intelligenza” ma non hanno ricevuto un adeguato riconoscimento per il loro sacrificio “…E’ tutta la vita che sente le loro ombre infisse nella sua anima come chiodi. Ragazzi e ragazze con l’acciaio nell’animo, che il fuoco tempra ma non scioglie”.
Rachel ha allevato i suoi figli nel mito della “Grande Israele”, rievocando ogni giorno le imprese che insieme ai suoi compagni di lotta l’hanno vista protagonista. Ma i figli ormai adulti si sono allontanati da lei: il maggiore condanna le scelte ideologiche della madre e la decisione di vivere nell’insediamento di Maale Adumim che, a suo dire, sarebbe un grave ostacolo alla pace; il minore è diventato un ebreo ortodosso, distante anni luce dalla visione laica trasmessa dai genitori. E in queste pagine c’è tutta la complessità della società israeliana nella quale trovano albergo le anime più diverse che Shalev descrive con rispetto, senza mai giudicare. Eppure Rachel, un personaggio nato casualmente mentre preparava un articolo per una rivista tedesca, è una figura nella quale l’autrice ha fatto fatica a identificarsi perché lontana dalla sua ideologia. Come ricorda in un’intervista, suo padre faceva parte del Lechi senza essere un estremista (il suo compito consisteva nello scrivere i testi di propaganda) eppure da adolescente quei racconti sulla clandestinità la irritavano molto.
Ciononostante, dopo aver “convissuto” per tanto tempo (sei anni è durata la stesura del romanzo) con il personaggio di Rachel, l’autrice riconosce che quell’incontro è stata “l’esperienza più fantastica” nel suo percorso di scrittrice perché “nelle nostre vite dobbiamo trovare lo spazio per convinzioni diverse, lo spazio dell’accoglienza”.
Con Atara ci addentriamo nel groviglio di emozioni e passioni di una donna di mezz’età, nelle tensioni sentimentali fra coniugi, nei conflitti fra genitori e figli che scandiscono la vita di molte famiglie in qualunque epoca e latitudine. Con maestria Shalev mette in scena il rapporto fra Atara e Alex: le inevitabili incomprensioni, la gioia per la nuova abitazione con il suo panorama mozzafiato, la riscoperta della passione ma anche il rimpianto per aver spezzato un precedente legame da cui era nata Abigail, la figlia che ora ha scelto di vivere in America, la difficoltà di comunicazione con Yoab, il figlio di Alex. Ma la vita non smette di metterci continuamente alla prova: il servizio militare ha cambiato profondamente Eden che ora vive chiuso in un mondo misterioso (per caso Atara scopre sul computer del ragazzo alcune ricerche sui suicidi nell’esercito) al quale non può accedere nemmeno la madre e, infine, in poche ore si consuma un dramma inaspettato che sconvolge profondamente la vita di una donna che non è riuscita a ricostruire, come fa nel suo lavoro, una “casa” solida e duratura.
A un certo punto Atara si troverà nella medesima condizione di Rachel – lasciamo al lettore il privilegio di scoprire perché – e cercherà rifugio e protezione nell’anziana combattente: “Perché vuole rivedere Rachel, trovare riparo sotto l’ala di quell’atavica appartenenza, l’ultima che le è rimasta, assorbire lentamente la forza radiosa di quel corpo avvizzito. Vuole far conoscenza con lei e con la vita che ha vissuto condividere con lei lo stupore del loro comune destino”.
Elaborare il dolore, affrontare le difficoltà giorno dopo giorno, coltivare la memoria attraverso la letteratura è la strada maestra che, secondo Zeruya Shalev, Atara e Rachel troveranno per giungere a una rinascita dello spirito e a una guarigione del corpo. La letteratura ci permette di curare l’anima ferita e di guardare al futuro con speranza.
Al termine della lettura di questo romanzo ci potremmo chiedere che futuro aspetta queste due donne e qual è il senso migliore del loro legame appena nato. E’ l’autrice a rispondere in un’intervista affermando che tutti i protagonisti dei suoi romanzi hanno la tendenza al rimpianto, al senso di colpa e poiché questo libro è ancor più estremo non poteva non lasciare aperta una via d’uscita per continuare a vivere. Riconoscere il dolore l’una dell’altra può dar luogo a una sorta di liberazione e in questa direzione che esprime un senso di speranza e di grazia Atara e Rachel, non più sole, troveranno la strada da percorrere.