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La Repubblica Rassegna Stampa
02.12.2022 Oksana Zabužko: 'Noi ucraini costretti a vivere nella paura'
Intervista di Wlodek Goldkorn

Testata: La Repubblica
Data: 02 dicembre 2022
Pagina: 35
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «'Noi ucraini afflitti dalla paura'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 02/12/2022, a pag.35 con il titolo 'Noi ucraini afflitti dalla paura' l'intervista di Wlodek Goldkorn.

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Wlodek Goldkorn

Oksana Zabuzhko: “Gli ucraini lottano per liberare l'Europa dallo spettro  del totalitarismo” | Succede al PE | Parlamento Europeo Ufficio in Italia
Oksana Zabužko

Era il 23 febbraio quando Oksana Zabužko, intellettuale molto influente, scrittrice, poeta, pioniera del femminismo ucraino arrivò a Varsavia. Nella valigetta aveva solo l’indispensabile e perfino il suo computer portatile l’aveva lasciato a casa a Kiev, convinta che nella capitale polacca sarebbe stata giusto quarantotto ore, tempo di presentare un suo libro e incontrare amici e amiche. E invece il 24 la svegliò la telefonata del marito: i russi avevano invaso il paese e stavano bombardando la città. Da quell’esperienza è nato un testo, Il viaggio più lungo. La cecità dell’Occidente e l’imperialismo russo in uscita con Einaudi Stile libero con la traduzione di Alessandro Achilli. Il libro, un pamphlet sulla sottovalutazione del “pericolo totalitario”, spiega la portata del disegno imperiale di Putin e finisce con il monito di Toro Seduto, capo tribù dei Sioux: «Quando avrete tagliato l’ultimo albero, prosciugato l’ultimo fiume e ucciso l’ultimo uccello — allora vi renderete conto che i soldi non si possono mangiare».

Uno dei temi di cui parla è la decolonizzazione. Non solo il finale con Toro Seduto, ma pure in esergo con una citazione di Taras Ševcenko, poeta nazionale ucraino dell’Ottocento: “La storia della mia vita è parte della storia del mio popolo”. «È una frase che spiega il titolo. Sono una donna con la valigia in terra straniera. Il mio viaggio è parte del cammino della mia cultura e della mia letteratura. E ho la presunzione di parlare a nome del mio paese. È un viaggio lungo alcuni secoli».

La storia dell’Ucraina è parte della storia dell’Impero zarista ma anche dell’Urss dove era forte la politica della russificazione... «Un tentativo di annientare identità locali e rendere tutto omogeneo. In una conversazione del 1983 con Philip Roth, Milan Kundera diceva: “Dopo l’invasione russa del 1968, ogni ceco si è trovato di fronte al pensiero che la sua nazione potesse essere tranquillamente cancellata dall’Europa, proprio come negli ultimi cinquant’anni 40 milioni di ucraini sono scomparsi silenziosamente dal mondo senza che il mondo ci prestasse attenzione”. Quel testo lo lessi nei primi anni Novanta. Avevo scoperto che eravamo già stati derubricati come un incidente della storia. Oggi posso dire che l’ipotetica caduta di Kiev pochi giorni dopo l’aggressione russa, avrebbe significato una condanna a morte di tutta l’Europa. È una questione di valori. La domanda è: vogliamo riconoscere il diritto di chi si sente più forte, si comporta da maschio alpha, pretende di decidere chi debba vivere e chi no e impone la sua visione del mondo? Aggiungo, la Russia è un impero arcaico e dove fin dall’Ottocento sono falliti tutti i tentativi di modernizzazione. Non vedo come possa essere modernizzata oggi».

Nel libro “Pianeta assenzio”, per ora non tradotto in italiano e dove si narra molto di Chernobyl lei, che oggiha sessantadue anni parla di una “generazione della catastrofe”. Ma tutta la storia dell’Ucraina è catastrofe... «Comincia nella seconda metà del Settecento quando Caterina II sopprime il Sic di Zaporižžja (specie di repubblica maschile di agricoltori moschettieri). E con l’imposizione della servitù della gleba, che resta come una ferita nella nostra memoria. Poi c’è l’Ukaz di Ems del 1876, un decreto che vietava l’uso in pubblico della lingua ucraina. Furono proibiti i giornali filoucraini. E non si poteva più parlare dell’Ucraina come di un’entità con le sue caratteristiche etnografiche specifiche. Quel provvedimento bloccò la possibilità del consolidamento di una nazione ucraina moderna, di un nostro Risorgimento. Così dopo la prima guerra mondiale e la Rivoluzione bolscevica non eravamo in grado di difendere la nostra indipendenza».

Holodomor, la carestia creata da Stalin negli anni Trenta, provocò milioni e milioni di morti. Come si parla del lutto e come si vive nel lutto? «Gli ultimi trent’anni, anni dell’indipendenza seppur claudicante, sono stati un corso accelerato di maturazione. Abbiamo elaborato molto. Negli anni Novanta il mio libro Sesso ucraino: istruzioni per l’uso (in uscita in Italia a gennaio, ndr ) è stato uno scandalo. Molte persone non volevano accettare che dei traumi nazionali si parlasse in un linguaggio del corpo femminile. Ma la mia generazione non ne poteva più della sacralità del lutto. C’era il trauma e poi la rimozione e la paura di parlare del trauma. La caratteristica del genocidio ucraino era il divieto di parlarne».

C’è pure la vergogna delle vittime. «Nel 2000 scrissi un articolo per dire: abbiamo paura della parola vittima. Le persone anziane dicevano: ho partecipato a Holodomor. Non riuscivano a dire: sono stato vittima».

E oggi? «Abbiamo ancora paura. Spesso accettiamo l’inaccettabile con l’idea “purché non sia peggio”. Una mia amica psicoterapeuta mi raccontava di casi di persone di successo con coazione a fallire all’apice della carriera per paura che mettendosi in mostra possano andare incontro alla catastrofe personale. È la terza generazione di Holodomor, nipoti dei nonni considerati “kulaki”. Ecco, spesso la donna ucraina, quando sente un complimento, si giustifica: “Sì, il vestito è bello ma è un puro caso”. C’è il timore che ti toglieranno qualcosa. Infatti i russi sono venuti e hanno preso lavatrici, televisori, computer. Ho visto in tv un ufficiale russo, prigioniero di guerra, che diceva: “ma perché dovete vivere meglio di noi?”».

Il processo di decolonizzazione porta anche al rigetto di scrittori nati in Ucraina, come Bulgakov.... «Con Bulgakov nessun problema. Gli ucraini parteciparono alla costruzione della letteratura russa. Ma quel contributo è stato cancellato, dimenticato, non riconosciuto. Gogol’ voleva creare un linguaggio che dovesse essere comprensibile sia per la “Grande Russia” che per la “Piccola Russia” (come veniva chiama l’Ucraina allora). E poi c’è Cechov».

Scrittore democratico, europeo. «Era ucraino. influenzato da donne ucraine intelligenti. Lo adoro. Avevo conosciuto una nipote di una delle tre sorelle. E ho visto la foto delle tre sorelle nel giardino dei ciliegi. Vicino a Sumy, in Ucraina».

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