Putin in Siria, catastrofe umanitaria Analisi di Paola Peduzzi
Testata: Il Foglio Data: 02 dicembre 2022 Pagina: 1 Autore: Paola Peduzzi Titolo: «Putin in Siria, catastrofe umanitaria»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 02/12/2022, a pag. 1, con il titolo 'Putin in Siria, catastrofe umanitaria', l'analisi di Paola Peduzzi.
Paola Peduzzi
Milano. Gli aerei russi e siriani si riconoscono dal suono: sono rumorosi, li senti arrivare. Gli aerei turchi no, sono più silenziosi, sbucano dal nulla, “ma non ci spaventano più di tanto: colpiscono i curdi”. Benvenuti nel nord-est della Siria, undici anni e mezzo dopo l’inizio della repressione del regime di Assad contro il suo popolo che si era ribellato; sette anni dopo l’arrivo delle forze di Vladimir Putin che si sono sistemate sulla costa, a Latakia e Tartous, garantendo la sopravvivenza ad Assad e il tanto ambìto accesso sul mare: questo sostegno fu richiesto, negoziato e ottenuto nel 2015 dal generale iraniano Suleimani, sponsor del regime siriano e broker dell’intervento russo. Idlib è la regione più martoriata dalla guerra civile siriana. “Civile” è il termine edulcorato e deresponsabilizzante per definire una guerra in cui il regime bombarda, affama, imprigiona e tortura il proprio popolo avvalendosi del sostegno dei suoi partner internazionali, Russia e Iran, senza i quali non sopravviverebbe. A Idlib si riconoscono i rombi degli aerei, si contano i morti del giorno, si aspetta l’ondata di violenta instabilità in arrivo quando la Turchia di Recep Tayyip Erdogan invaderà per andare a caccia dei curdi, che non sono qui, ma gli effetti si sentiranno comunque. Erdogan ha chiesto mano libera a Putin e agli ayatollah in Siria in cambio di un suo presunto ruolo di mediatore nella guerra russa in Ucraina e alcuni dicono che sia pronto a incontrare persino Assad, che è o forse era il suo nemico. Gli Stati Uniti stanno provando a trattenere il presidente turco, ma sembra che non ci riescano, anche perché lui ha apparecchiato un ricco piatto negoziale, nel quale c’è anche l’allargamento della Nato, cui evidentemente l’America tiene molto: manca soltanto la ratifica turca. La guerra in Siria è stata per Putin il prototipo della guerra in Ucraina: le ragioni e i contesti sono naturalmente molto diversi, ma i metodi utilizzati no. Il presidente russo è intervenuto militarmente nel 2015, ma era stato nel 2013 che aveva ottenuto il via libera, quando si era offerto di mettere in sicurezza le armi chimiche del regime di Assad e l’Amministrazione Obama aveva accolto l’offerta come uno “sviluppo potenzialmente positivo”. Assad aveva violato la “linea rossa” posta da Barack Obama utilizzando le armi chimiche contro i siriani, ma Washington aveva deciso di non intervenire direttamente, aspettando un voto a favore del Congresso che non sarebbe mai arrivato, ma che comunque era ormai inutile, perché nel tempo del tentennamento si era infilato il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov: “Se un controllo internazionale sulle armi chimiche in Siria ci permette di evitare l’intervento armato degli Stati Uniti, iniziamo immediatamente a lavorare con il governo di Damasco”. Nel giro di poche settimane, Obama aveva posto la linea rossa, Assad l’aveva violata, Obama aveva delegato la gestione del regime siriano a Putin. Nel 2015, quando l’America è infine intervenuta in Siria e Iraq contro lo Stato islamico, Mosca è arrivata con uomini e aerei sulla costa siriana per garantire, come richiesto anche dall’Iran, la sopravvivenza del regime di Assad: nel frattempo Putin aveva già invaso l’Ucraina, nel 2014. La Russia ha ottenuto quel che voleva in Siria: il regime di Assad è ancora lì, anzi, è ben più forte e solido ora di quanto non lo fosse nel 2015, e si è industriato per mantenersi diventando uno degli esportatori più importanti al mondo di anfetamine, in particolare le pillole di Captagon. Intanto le forze russe hanno raso al suolo Aleppo come avevano fatto a Grozny, in Cecenia, e hanno affinato il loro piano di bombe contro i civili, contro i convogli umanitari e contro gli ospedali, ogni volta negando nei consessi internazionali la loro responsabilità. Su una popolazione di 18 milioni di persone, 6,9 milioni sono sfollati internamente, 5,5 milioni sono migrati, il 65 per cento vive in condizioni di “insicurezza alimentare” (non mangiano tutti i giorni), a giugno il prezzo dei beni alimentari di base era salito del 45 per cento rispetto a gennaio, complice la scarsità di grano data dalla guerra di Putin in Ucraina. A settembre è scoppiata un’epidemia di colera, che ha fatto già decine di vittime e che si è diffusa velocemente in Libano e in Iraq: l’acqua si compra al mercato nero ed è contaminata, ma l’acqua corrente spesso non c’è, così come manca l’elettricità per molte ore ogni giorno. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha appena rinnovato l’invio di aiuti umanitari, ma ha dovuto limitarlo ai prossimi sei mesi per evitare il veto russo. Nel 2022 un milione e duecentomila siriani si sono aggiunti al conto di chi ha bisogno di assistenza per sopravvivere: cioè oggi si sta peggio di ieri. La crisi umanitaria in Siria è il risultato del realismo applicato ai regimi, quello siriano e quello russo (anche quello iraniano, con infinite diramazioni in questa regione): quante volte abbiamo sentito dire che non era possibile immaginare un futuro diverso per il popolo siriano perché senza Assad sarebbero arrivati leader molto più terrificanti, i terroristi? Assad e Putin erano considerati i garanti della stabilità, anche se usavano e usano metodi terroristici. Lo sono ancora, li usano ancora.
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