I giovani iraniani contro la dittatura degli ayatollah Analisi di Cecilia Sala
Testata: Il Foglio Data: 01 dicembre 2022 Pagina: 1 Autore: Cecilia Sala Titolo: «Startup Teheran»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 01/12/2022, a pag.1, con il titolo "Startup Teheran", l'analisi di Cecilia Sala.
Cecilia Sala
Roma. La generazione che protesta in Iran è la stessa che negli ultimi tempi aveva separato il proprio destino lavorativo dall’economia di regime. Era stata una scelta obbligata, nell’intreccio di fondazioni del clero e dei pasdaran che, insieme alle aziende di stato, rappresentano praticamente tutta l’economia della Repubblica islamica: per i giovani c’era poco spazio. Così i ventenni il lavoro se lo sono inventato: con Divar (l’Uber locale), Aparat (lo YouTube locale) e centinaia di altri esempi, grandi o molto piccoli, di startup e gig economy. Questo li ha resi meno dipendenti dagli ayatollah: non sono loro a pagare gli stipendi. Il 70 per cento degli iraniani ha meno di 35 anni. Ieri l’agenzia stampa Eghtesad News della Repubblica islamica ha fatto un annuncio: per la crisi, sono andati persi tre milioni di posti di lavoro in un anno. In Iran il tasso di disoccupazione è al 9 per cento, ma quello giovanile è quasi il triplo, più alto del 25 per cento. I nonni e i genitori delle ragazze e dei ragazzi che sono in strada a combattere con le parole, i capelli sciolti e i baci in pubblico, e anche con le molotov, sono dipendenti dello stato oppure donne e uomini che lavorano per le aziende “private” iraniane, che però appartengono alle fondazioni locali dei mullah o a quelle dei Guardiani della rivoluzione. In Iran il concetto di proprietà privata oltre una certa soglia di ricchezza è labile e anche la licenza per produrre la Coca–Cola nel paese ce l’aveva una fondazione religiosa, quella gestita per anni dall’attuale presidente Ebrahim Raisi. Se non si appartiene al clero o ai pasdaran, che attraverso le fondazioni-holding controllano le grandi società, fare impresa di solito significa essere un contadino e possedere un pezzo di terra oppure avere un banco al bazar. Infatti a protestare in Iran sono i discoccupati (come nel 2019) o i contadini, come quelli di Isfahan che l’anno scorso hanno riempito uno stadio: erano più di diecimila e si sono messi a gridare cori contro il governo e minacce di morte contro la Guida suprema. Poco dopo la polizia aveva incendiato le tende dove si erano accampati per la notte, erano arrivati da tutti gli angoli della provincia e avevano intenzione di portare avanti il raduno a lungo. Durante le proteste cominciate dopo la morte di Mahsa Amini, alcuni commercianti hanno tenuto chiuse le serrande al mercato in segno di solidarietà. Per i dipendenti pubblici e quelli di società che rispondono alle fondazioni, protestare significa rischiare di perdere il lavoro nel mezzo di una crisi economica con poche speranze di trovarne uno nuovo. Hanno scioperato per brevi periodi in solidarietà con i manifestanti anche gli operai metalmeccanici e quelli delle raffinerie di petrolio: rischiare una punizione economica dal loro punto di vista, in questo momento, fa poca differenza, visto che a molti di loro lo stato non paga comunque gli stipendi da mesi. I ragazzi – ma soprattutto le ragazze – di vent’anni non conoscono questi problemi perché la macchina economica della Repubblica islamica si è inceppata e da anni non crea nuovi posti di lavoro: ne sono sempre rimasti esclusi. Si sono arrangiati e così nel 2016 è nato Taspi, il servizio di car sharing più diffuso in Iran. Poi AloPeyk, che è un’app per le consegne, e Bdood, che è un’app di bikesharing. Digikala, per vendere e comprare vestiti online, e poi Zarinpal, per i pagamenti digitali veloci. Fino agli aggregatori in rete su cui ragazze e ragazzi offrono ripetizioni di inglese, matematica, informatica e lezioni di chitarra. Oppure si propongono per andare a fare le pulizie o la spesa, cucinare, curare il gatto o le piante. Poi ci sono quelli che hanno creato dei propri marchi di bigiotteria artigianale, abbigliamento, tappeti “rivisitati” e oggetti di design in metallo che vendono sulle app locali o sulla sezione “shopping” di Instagram. Le bacheche sui social network dei fondatori di queste startup, come il trentenne Hessam Armandehi che ha inventato l’Uber iraniano Divar e altre applicazioni, sono piene di appelli per chiedere la liberazioni dei propri dipendenti. Ci sono allegate le foto: sono tutti ventenni o poco più e sono tutti stati arrestati perché manifestavano. Il capo del dipartimento delle Telecomunicazioni dei pasdaran adesso chiede “una stretta sulle startup private”, cioè indipendenti. Quella che i ventenni e i trentenni iraniani hanno creato è un’economia parallela che fa arrabbiare il regime perché non la controlla e non arricchisce gli ayatollah. E perché ha creato la prima generazione che non dipende da loro per vivere.
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