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La Stampa Rassegna Stampa
15.03.2003 Intervista al generale israeliano Yaakov Amidror
Il generale israeliano spiega i vantaggi, gli svantaggi e i rischi di una guerra con l'Iraq

Testata: La Stampa
Data: 15 marzo 2003
Pagina: 4
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Rischi sul fronte palestinese»
Riportiamo l'intervista di Fiamma Nirenstein al generale israeliano Yaakov Amidror, pubblicata su La Stampa sabato 15 marzo 2003.
AL centro di Gerusalemme per gli Affari Pubblici un think-tank lavora incessantemente, in queste ore, sul prossimo inizio della guerra: il Fronte Interno ha dato ordine alla cittadinanza di prepaparare i rifugi, le previsioni sui tempi variano di pochi giorni, l´ambito in cui è previsto l´attacco è una settimana. Qui incontriamo, con un ristretto gruppo internazionale di giornalisti, il generale (oggi delle Riserve) Yaakov Amidror, per parlare del giorno dopo la guerra. Amidror non è il tipo di persona che vorreste ritrovarvi contro: i suoi occhi scuri ti guardano diritto e chiedono se hai capito bene, la barba bianca gli conferisce un´aria d´indiscutibile autorevolezza, la sua fama di «signor security» dell´esercito (36 anni in servizio, di cui parte trascorsi come capo degli affari mediorentali dell´intelligence, parte come direttore del National Defense College, e infine come direttore centrale del ministero della Difesa) si mischia al mito che lo circonda perché alla vigilia dell´imprevista guerra del 73 previde, fra la generale incredulità, l´attacco concentrico di Siria e Egitto.


Generale, quali cambiamenti prevede per Israele all´indomani di un´eventuale guerra irachena?

«Innanzitutto in generale: se la guerra ci sarà e seguirà il modello enunciato da Bush, sarà un´operazione non solo per il disarmo e la destituzione di Saddam Hussein, ma una guerra a sfondo ideologico, che ricorda la strategia di Reagan contro l´"Impero del Male". Adesso Bush combatte contro l´"Asse del Male", come lui lo chiama, e con questo intende dire che le dittature, violente verso i propri cittadini e generatrici di terrorismo, devono sparire. Bush vede nella società liberale l´antidoto al Male. Ricorda Peres, che parlava di "Nuovo Medio Oriente"? Intendeva interazione economica, apertura dei mercati e dei viaggi, un futuro con il volto della democrazia. Non siamo molto lontani. Dunque, dopo la guerra ci saranno passi che consentiranno in Iraq e forse altrove l´apertura di questo processo».

Intende elezioni immediate?

«Le elezioni, come si vede ampiamente nell´area, non sono affatto sinonimo di democrazia. Mi ricordo che un mio caro amico arabo paragonava due Paesi, uno "duro" e uno "moderato", in cui si era recentemente votato: non c´è grande differenza, disse, soltanto che nel primo la polizia decide i risultati prima, nel secondo dopo le elezioni. Elezioni immediate in Iraq potrebbero significare la vittoria di un partito estremista islamico, occorre una paziente fase di transizione, in cui il Piano Marshall, per così dire, preceda l´iniziativa politica».

Parliamo di Israele: sono più i vantaggi o gli svantaggi che può ricavare dalla guerra?

«Dobbiamo contemplare sia l´una che l´altra possibilità. In primo luogo, da anni Israele spende molte energie per prepararsi a un incombente attacco missilistico dall´Est, e se il grande rischio Saddam sarà debellato, il continuo allarme diminuirebbe alquanto. In secondo luogo verrebbe a cadere la recente alleanza Iraq-Siria, che forma una muraglia di pericolo in cui sono incastonati gli Hezbollah. La Siria, da quando non ha più il sostegno sovietico e la prudenza di Assad, ha trovato in Saddam il suo sostegno strategico. Senza Saddam la minaccia siriana sarebbe molto minore, e così quella degli Hezbollah, un´organizzazione inferiore solo ad Al Qaeda, armata sia da Bashar Assad che dall´Iran».

Domani immagina che gli Usa dovrebbero occuparsene?

«Mai. Israele deve sempre e soltanto difendersi da solo. Ma mi lasci tornare al panorama strategico: se Saddam sarà battuto, il confine con la Giordania perderà per noi la grande drammaticità che lo caratterizza, la linea lungo cui costruire una pesante difesa. Una Giordania finalmente tranquilla sui suoi confini ci toglierebbe molte preoccupazioni anche rispetto alla pace con i palestinesi».

Veniamo ai rischi.

«Il rischio lo vedo tutto sul fronte palestinese: non ho nessun indizio che mi suggerisca cambiamenti in Arafat, minori rischi di terrorismo in relazione alla guerra imminente. Invece è venuta avanti la linea della Road Map, quella del Quartetto (a differenza della prima proposta di Bush del giugno scorso che prevedeva la creazione dello Stato Palestinese una volta conclusasi la fase del terrore e avviata la riforma democratica) che immagina il congelamento degli insediamenti e l´inizio delle concessioni mentre si avvia un eventuale cambiamento di politica palestinese. Questa linea può essere letale per noi: sarebbe una patente ricompensa alla linea del terrore, quindi un incitamento a proseguirla. Si ricordi che già con l´accordo di Oslo ci eravamo ritirati da tutte le città, il 95 per cento della popolazione era già sotto Arafat, e questo ha costruito solo il retroterra strategico del terrore che persegue i propri obiettivi con la violenza. Il terrorismo non deve invece essere ricompensato in nessun caso, è un errore strategico e morale. Ricompensare l´Intifada sarebbe un tragico invito a tutte le organizzazioni terroristiche a cercare successi con la forza. Sarebbe un errore che vanificherebbe l´azione americana e britannica».

Per esempio?

«La Siria, che ha oggi il maggiore contingente di armi non convenzionali nella zona, si sentirebbe autorizzata a farne uso; gli Hezbollah che dispongono di 12 mila katiushe un giorno potrebbero decidere, in assenza del freno prudente del vecchio Assad, di utilizzarle; per non parlare dell´Iran, dove l´ispettore dell´Onu El Baradei ha appena trovato nuovi impianti per l´uranio arricchito. Se l´Iran non riceve una lezione sia pure indiretta da questa guerra, sarà un disastro: oltretutto, i suoi missili a lunga gittata possono colpire ovunque. Dunque, perché Israele non divenga una prima vittima del fallimento eventuale della strategia per un nuovo Medio Oriente, bisogna che convinca l´America che piegarsi all´esistente, ovvero al ricatto, sarebbe una capitolazione morale con immense conseguenze pratiche».


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