Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/11/2022, a pag.35, con il titolo "Se gli orsi non esistono" il commento di Laura Mirakian.
Laura Mirakian
Jafar Panahi
Il regista iraniano Jafar Panahi, noto per il suo dissenso dal regime, ci offre nel suo ultimo film premiato al festival di Venezia Gli orsi non esistono uno straordinario squarcio sul grande tormento della società iraniana di oggi. Ambientato in un piccolo villaggio di montagna all’estrema periferia del paese ai confini con la Turchia, gli abitanti, organizzati con un capo villaggio che funge da mediatore nelle diatribe locali e con una laboriosa comunità femminile, vivono tra le costrizioni dettate dalle credenze locali e gli echi di una modernità semisconosciuta delle grandi città. Su tutto, aleggiano le soffocanti prescrizioni di uno Stato lontano ma onnipresente. Lo scenario traduce in chiave sociologica il disagio di contraddizioni apparentemente inconciliabili tra tradizione e modernità, tra periferie e centri urbani, tra lontananza del regime e istanze della popolazione. Il racconto termina con un finale in sospeso. Questo è naturalmente solo una rappresentazione artistica della realtà dell’Iran di oggi. Ma che ci aiuta a capire. Oppresse dal soffocante oscurantismo di un regime teocratico, e forse ancor prima di un contesto familiare ancorato alla tradizione, giovani donne hanno avviato una rivolta che si sta rivelando incontenibile, semplicemente strappandosi di dosso il velo e tagliandosi ciocche di capelli, all’insegna di “donne, vita, libertà”. Rivolta subito brutalmente repressa, ma rapidamente estesasi al mondo maschile delle più disparate categorie sociali, ivi incluso il vivace mondo dei bazar, particolarmente attiva nelle aeree di insediamento di minoranze etnico-religiose, Kurdistan iraniano e Sistan Balucistan in primis, e da ultimo giunta alla ribalta delle cronache mondiali con il coraggioso gesto della squadra di calcio iraniana. Rivolta trasformatasi così in una sfida al regime, la più grave nei 43 anni di potere, e alla stessa Guida Suprema: “morte al dittatore”. Chi sono queste giovani donne? Sono soprattutto quelle della capitale e dei centri urbani, quelle che hanno potuto studiare fino all’Università, dove il 44% degli iscritti risulta essere donne. L’istruzione ha spalancato le porte al riscatto e alla modernità. Non a caso i Talebani afgani continuano a vietare al genere femminile l’accesso all’istruzione scolastica. Non a caso il radicalismo islamico si basa, per penetrare le società arabe, anzitutto sul controllo e l’indottrinamento delle donne alla sottomissione. Non a caso i Curdi, nella resistenza all’Isis, hanno puntato sulla forza combattiva delle loro donne fino all’addestramento di contingenti militari al femminile. Particolarmente temute le donne giornaliste, decine detenute in carcere per aver disseminato “notizie false”, e i giovani, accorsi ad affollare i luoghi della protesta. Non vi è di peggio che essere donne, istruite, e magari giornaliste, o esseregiovani miscredenti che usano internet per suscitare immediati sospetti e reazioni di una gerontocrazia autocratica con tutta evidenza presa in contropiede. L’Iran, erede del grande passato persiano, con grandi ambizioni di riedizione nel presente. L’Iran, che si vuole protagonista vincente dal Golfo al Mediterraneo tramite una filiera di affiliati. Che affronta indomito sanzioni, crisi economica, isolamento. Che si permette di respingere l’offerta occidentale di riattivazione del Jcpoa, e anzi di espandere il suo programma nucleare, puntando sulle potenzialità intellettuali e scientifiche del mondo accademico, e sull’efficienza di strutture militari e paramilitari ancorate alla tradizione rivendicativa di un severo Islam sciita. Che sfida il suo Vicinato, contendendo agli arabi del Golfo la supremazia nel Grande Medio Oriente, che si rifiuta di riconoscere l’esistenza stessa di Israele, e che giunge a prendere parte alla grande partita in corso in Europa fornendo a Mosca i suoi droni. Non certo per simpatia verso i russi, con cui anzi è in competizione da secoli, ma perché l’antagonismo nei confronti dell’Occidente, Stati Uniti in primis, e di Israele costituisce il cardine su cui il regime ha costruito la propria legittimità. Così come, al proprio interno, la ferrea osservanza di regole religiose che impongono la scrupolosa foggia del velo islamico quale simbolo d sottomissione. Facile attribuire la colpa a sponsor stranieri e chiamare i rivoltosi terroristi, o colpire i curdi del Kurdistan iracheno colpevoli di ospitare l’opposizione curdo-iraniana. Ma questa volta, i calcoli potrebbero rivelarsi sbagliati. Perché l’ardita proiezione esterna di Teheran poggia su una postura interna sempre più fragile e contestata. Colpendo duramente le donne che protestano, riempiendone le carceri, e i cimiteri, il regime sta rivelando tutta la sua vulnerabilità. Sarà l’inizio della fine del regime iraniano, come qualcuno prospetta? Oppure di crepe tra le sue stesse fila, il riaffiorare dell’aspro confronto tra ultraconservatori e riformisti già conosciuto nel recente passato? Anche alte gerarchie civili e religiose parlano ormai di “cambiamenti necessari nel settore economico, sociale, politico”, del “diritto della gente di criticare i dirigenti”, di aggiornamento dei comportamenti, di dialogo e interazione che sostituisca la repressione. Auguriamoci che attraverso queste crepe possano farsi strada le istanze della protesta, un razionale ripensamento del ruolo portante che donne e giovani rivestono nella società iraniana, come in ogni società, e che ne garantisce il futuro. Auguriamoci che il cammino delle giovani donne sia irreversibile, e che davvero gli orsi del film di Jafar Panahi non esistano.