Iran, la potenza del silenzio. I giocatori non cantano l’inno Cronaca di Enrico Currò
Testata: La Repubblica Data: 22 novembre 2022 Pagina: 8 Autore: Enrico Currò Titolo: «Iran, la potenza del silenzio. I giocatori non cantano l’inno»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/11/2022 a pag.8 con il titolo "Iran, la potenza del silenzio. I giocatori non cantano l’inno", il commento di Enrico Currò.
La squadra iraniana in Qatar
Coi loro volti antichi e induriti, gli sguardi davvero di pietra, i calciatori dell’Iran hanno ascoltato il loro inno nazionale senza muovere un muscolo. Tanto meno le labbra, cucite per solidarietà con la protesta per la strage di donne, giovani e bambini da parte del regime. La partita con l’Inghilterra che ieri ha aperto il loro Mondiale è stata un supplizio. Ma la sofferenza calcistica, il 6-2 inflitto da Kane e Saka, per quanto lunghissima (119 minuti, 29 di recupero, un record), è stata il meno. Quella dei giocatori iraniani rimarrà probabilmente l’immagine più forte di questa Coppa del mondo. Avrebbero voluto essere ovunque ma non qui, con addosso la maglia di un Paese dilaniato. Così hanno parlato con gli occhi. Qualcuno li aveva umidi come la donna che in tribuna si è abbandonata a un pianto disperato. L’hijab, il velo delle donne musulmane, l’ha ingrandito, sui video di tutto il mondo: quell’hijab che Mahsa Amini indossava male, secondo la polizia religiosa, e che le è costato l’arresto, il massacro e la morte.
Aveva gli occhi umidi il gigante Roozbeh Cheshmi, 1,94, difensore centrale dell’Esteghlal, la storica squadra di Teheran, mentre fischiava e ululava la folla dei duemilacinquecento tifosi arrivati a Doha col biglietto in tasca per la contrarietà dei bagarini cinesi, che li smerciavano a 550 dollari l’uno. Fischi e ululati erano un po’ contro l’inno e un po’ contro i calciatori, perché il Paese è appunto spaccato. Però è sempre meno spaccato, se questo stadio in mezzo al deserto rappresenta un parametro: la protesta antiregime ha contagiato via via gli altri, inclusi gli agnostici magari per paura. Ai giornalisti, il ct Queiroz dirà alla fine: «Questi ragazzi vogliono giocare a calcio, non fategli lezioni o finte morali. Vogliono giocare per il loro popolo, ma l’atmosfera pesa. Chi non vuole supportarli, resti a casa. Abbiamo le nostre opinioni e le esprimiamo quando pensiamo sia giusto». Sono stati orgogliosamente issati i cartelli delle manifestazioni con le tre parole simbolo: woman, life, freedom. E a metà ripresa, quando sul campo era già tutto deciso per manifesta superiorità di una squadra (e manifesta inferiorità dell’altra, paralizzata dall’insostenibile tensione), si è levato il coro più inequivocabile: “Ali Karimi”. Era dedicato all’ex campione, noto come il Maradona d’Asia, oggi tra gli sportivi in prima fila nella protesta. Il coro più insistente, prima, era stato un altro: “Bi sharaf”, vergogna. Nasceva da duplice pulsione:la frustrazione per il risultato e la rabbia verso quei calciatori accusati di contiguità col regime. Il più bersagliato sui social resta il portiere Beiranvand, che dopo otto minuti si è rotto il naso in un’uscita e sul web non ha potuto parare i sarcasmi e gli attacchi, il più benevolo dei quali è il classico ben ti sta. Taremi, il centravanti del Porto a sua volta criticato per le stesse ragioni, era il più impermeabile: ha segnato un bel gol, senza festeggiarlo, e poi un altro nel finale, su rigore, dopo l’errore del giovane Azmoun, che gioca in Germania, è il talento della squadra, è un po’ acciaccato e si è esposto in difesa dei diritti delle donne. A proposito di diritti, si è liquefatta la presa di posizione dell’Inghilterra e di altre sei squadre per la comunità Lgbtq: Kane ha indossato la fascia di capitano imposta dalla Fifa, genericamente, contro le discriminazioni. Ha prevalso il timore che un’ammonizione potesse condizionare il torneo dei capitani. Hainvece resistito il gesto dell’inginocchiamento per la campagna Black Lives Matter. Poi, a fine partita, Queiroz ha radunato i calciatori in cerchio, per spronarli in vista delle prossime partite con Galles e Usa: «Il Mondiale è il vostro sogno, ricordatevelo ». Ma quando la squadra ha percorso il serpentone che la portava al pullman, davanti a una volontaria con l’hijab, si è fatto di nuovo labile il confine tra sogno e supplizio.
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