Iran, in fiamme la casa-museo di Khomeini Cronaca di Gabriella Colarusso, commento di Tatiana Boutourline
Testata:La Repubblica - Il Foglio Autore: Gabriella Colarusso - Tatiana Boutourline Titolo: «L’Iran in fiamme. Bombe molotov contro casa Khomeini - Brucia Khomeini»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 19/11/2022, a pag.22, con il titolo "L’Iran in fiamme. Bombe molotov contro casa Khomeini", la cronaca di Gabriella Colarusso; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Brucia Khomeini", il commento di Tatiana Boutourline.
Ecco gli articoli:
Gabriella Colarusso: "L’Iran in fiamme. Bombe molotov contro casa Khomeini"
Gabriella Colarusso
Le proteste anti-governative in corso in Iran da ormai più di due mesi colpiscono ora i luoghi simbolo del potere religioso e militare della Repubblica islamica: i seminari sciiti, gli uffici degli imam, le sedi dei basiji, la milizia paramilitare usata per reprimere le piazze. Nella notte tra giovedì e venerdì ci sono state decine di manifestazioni in tutto il Paese e qualche migliaio di persone si sono radunate anche per le strade della conservatrice Khomein, una media città nel centro dell’Iran famosa per essere il posto in cui è nato l’ayatollah Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica. Un video diffuso da diversi account social che monitorano le manifestazioni mostra le fiamme davanti a quella che fu la sua casa fino a 19 anni e che da tempo è un museo dedicato alla sua vita. Si sente la voce di una donna: «Hanno bruciato la casa di Khomeini », poi quella di una bambina:«Hanno bruciato anche le bandiere». Il fuoco che arde davanti alla casa del padre della rivoluzione islamica è un’immagine di enorme impatto simbolico per gli iraniani, è la rappresentazione visiva della crisi di legittimità del sistema. «Non vogliamo la Repubblica islamica, via i mullah », gridano i manifestanti. Le autorità di Khomein hanno diffuso subito un comunicato per smentire che la struttura fosse stata attaccata pur confermando che c’era stata una protesta. L’agenzia di stampa Tasnim, legata ai Pasdaran, ha pubblicato una vecchia foto del cortile interno assicurando che «le porte della casa del defunto fondatore della grande rivoluzione sono aperte al pubblico». La struttura sulla riva nord del fiume Khomein fu costruita durante la dinastia dei Qajar: ha quattro ampi cortili interni e una fila di archi che la circondano, separati dal corpo centrale. Secondo fonti iraniane indipendenti un gruppo di manifestanti si è staccato dal corteo principale e ha lanciato delle molotov contro l’arcata laterale. La struttura non ha subito danni. Scene simili si sono viste a Qom, la città dei più importanti seminari sciiti dove i manifestanti hanno lanciato bottiglie incendiarie contro un seminario, a Toisarkan, dove hanno dato fuoco alla porta dell’ufficio dell’imam responsabile della preghiera del venerdì, a Izeh, nel Khuzestan, Sud Ovest, con il fuoco appiccato a un altro centro sciita. Izeh è il centro di maggiore tensioni in questi giorni. Ieri erano in migliaia al funerale di Kian Pirfalak, un bambinodi nove anni ucciso durante una manifestazione in cui sono morte almeno altre sette persone. Il governo sostiene che sia stata opera di «terroristi » finanziati dall’esterno, media di Stato e funzionari pubblici parlano di «guerra civile» fomentata dalle «intelligence di Usa, Israele, Regno Unito», facendo temere una repressione ancora più brutale. Ma molti iraniani continuano a scendere in strada per chiedere libertà e diritti civili e politici. La madre di Kian ieri ha sfidato apertamente la versione del governo: sono state le forze di sicurezza a uccidere mio figlio, non i “terroristi”, ha detto. Gli agenti spesso in borghese sparano, le famiglie seppelliscono figli, nipoti, sorelle — le vittime minorenni sono almeno 50 — e ogni cerimonia funebre diventa una nuova manifestazione di protesta più partecipata. Ieri erano in migliaia a Mahabad, nel nord, a Chabahar e Zahedan, nel sud, a Gilan, Rasht, Teheran. Ci sono stati episodi molto violenti. Un colonnello dei Guardiani della rivoluzione, Nader Beyrami, comandante dell’intelligence dei Pasdaran nella città di Sahneh è stato pugnalato a morte, secondo i media governativi. I suoi killer sarebbero stati arrestati.
Tatiana Boutourline: "Il 40° giorno"
Tatiana Boutourline
Roma. C’è stato un tempo in cui ai rivoluzionari pareva di intravedere il volto di Ruhollah Khomeini sulla Luna. Salivano sui tetti piatti delle case, alzavano il mento verso l’alto e un dito verso il cielo e sospiravano: “Dio è grande”. Era novembre anche allora, il novembre del 1978, Khomeini sarebbe tornato in Iran il primo febbraio del ’79, ma intanto quell’autunno, quel grido: “Dio è grande” correva di bocca in bocca. In una notte di Luna piena, il 27 novembre, i tassisti fermarono le macchine in mezzo al traffico pur di assistere al miracolo della sua apparizione nel cielo sopra Teheran. Quarantaquattro anni dopo, il volto del padre della Repubblica islamica s’accartoccia sotto le suole delle scarpe dei nipoti della rivoluzione. Da nove settimane le bambine strappano le sue immagini dai libri e i ragazzi imbrattano di rosso sangue i suoi murales. Giovedì notte una folla di manifestanti si è riversata per le strade di Khomein, la piccola città a nord-ovest di Esfahan che gli ha dato i natali. Khomein è il tipico centro di provincia, apparentemente tradizionalista, di cui gli analisti fino all’altro ieri avrebbero detto: un conto è Teheran e un conto è il resto dell’Iran. Eppure a Khomein, la sonnolenta cittadina meta di devoti pellegrinaggi, le ragazze hanno sfilato senza velo invocando “libertà!” e i ragazzi le hanno fiancheggiate rispondendo: “Morte al dittatore!”. A ogni boccata a Khomein si respirava fervore rivoluzionario. “E’ un’onda inarrestabile la stiamo cavalcando, nessuno riuscirà a fermarla”, ha spiegato un ragazzo, ma era un fervore di segno opposto rispetto a quello che riempiva l’aria nell’autunno del ’78, un fervore più allegro, più colorato, a tratti più disperato e infinitamente più consapevole. Gli agenti hanno cercato di disperdere i manifestanti lanciando lacrimogeni, loro correvano urlando: “Siete senza onore”, e nel frattempo la casa-museo del padre della rivoluzione era già stata data alle fiamme. La stessa notte un video diffuso dal collettivo di attivisti @1500tasvir mostrava gli archi di una facciata del seminario della città santa di Qom aggrediti dal fuoco. Prevedibilmente il regime ha negato l’evidenza. I canali della tv pubblica non parlano delle manifestazioni, ma il problema per il regime è che la tv di stato non la guarda nessuno, tutti hanno il satellite, inclusi i pasdaran, gli ayatollah e i colletti bianchi del deep state – tutti prima o poi riescono a connettersi a un Vpn, e intanto a descrivere il nuovo Iran ci pensa la geografia urbana. A Mashad, la città di Ali Khamenei e del santuario dell’Imam Reza, è comparsa la scritta “E’ la fine” su un lenzuolo che pendeva giù da un ponte pedonale; a Teheran fantocci di Khomeini e di Khamenei ondeggiano dai cavalcavia, hanno il viso deturpato o una corda al collo. Ma sono ubiqui pure i cartelloni strazianti con i volti dei ragazzini uccisi. Ieri l’immagine di Kian Pirfalak, un bambino di 10 anni che viveva a Izeh, in Khuzestan, e sognava di diventare un inventore, campeggiava da un ponte sopra l’autostrada Niayesh di Teheran. “Il potere che uccide i bambini”, c’era scritto. La stessa mattina si è svolto il suo funerale e ha preso la parola la madre. “Non lasciate che vi dicano che si è trattato di un attacco terroristico. E’ stata la polizia a uccidere mio figlio”. Pesano come pietre le parole della madre di Kian, pesano quanto quelle del padre di Salar Mojaver che davanti alla tomba del figlio ha detto: “Non ho più lacrime da piangere. Mio figlio non è più solo mio, ora è il figlio di questa nazione”. “I martiri non muoiono mai”, gli ha risposto una folla commossa e battagliera, come accadde due mesi fa durante il funerale di Mahsa Amini. Il regime non è mai stato tanto fragile però è ancora troppo forte per fallire, seguitano a spiegare gli analisti. Ma intanto i simboli della Repubblica islamica cadono come birilli; per paura degli agguati dei ragazzini, i mullah camminano guardandosi le spalle, i proprietari dei café non osano più redarguire le mal velate, sebbene un’infrazione possa costare la licenza, le donne girano senza velo nei centri commerciali e gli esponenti del governo tremano ogni volta che sono costretti ad apparire in pubblico. Le manifestazioni scoppiano come piccoli fuochi da un capo all’altro del paese. Il movimento è come un corpo vivo che ogni giorno reagisce e si rigenera, ha spiegato al Foglio un’attivista. E intanto per il regime, la sfida si combatte su tre fronti. Il primo è la questione femminile, una questione colossale intorno alla quale l’élite clericale si avvita da almeno vent’anni (“non possiamo imporre l’obbligo del velo con le armi e i manganelli”, diceva nei primi anni Duemila l’ex ministro dell’Interno Abdollah Nouri). Il secondo è l’obiettivo di pacificare le università in cui il cuore della rivolta batte a ritmo ogni giorno più accelerato. Il terzo è quello di riportare la calma nelle regioni in cui le rivendicazioni identitarie dei curdi, dei baluci e delle minoranze sunnite si saldano alla protesta e la irrobustiscono. Qualche timida voce nell’establishment suggerisce un approccio più dialogante, ma la dottrina della Guida suprema non prevede la trattativa. “Ho sentito la voce della vostra rivoluzione”, disse lo Scià nel ’78, e secondo Khamenei si trattò del suo errore fatale. “E’ stato in quel momento che abbiamo annusato l’odore del sangue”, ha spiegato in un celebre discorso. Ma in Iran lo stesso profumo, il profumo della vittoria, accende milioni di sogni. “Provino pure a fermarci – ha detto un manifestante al Foglio – Sarà come svuotare il mare con un cucchiaino”.
Per inviare la propria opinione a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante