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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
09.03.2003 Il fallimento dell'Intifada
Dopo due anni e mezzo l'Intifada non ha raggiunto nessun risultato significativo.

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 09 marzo 2003
Pagina: 2
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «L'Intifada è ormai fallita»
Riportiamo un articolo di Emanuele Ottolenghi pubblicato su Il Sole 24 Ore domenica 9 marzo 2003.
L'Intifada è fallita. A due anni e mezzo dal suo scoppio, i palestinesi non hanno raggiunto alcun significativo risultato. La solidarietà panaraba non si è spinta oltre la retorica e gli aiuti finanziari. Nonostante le durissime rappresaglie israeliane, nè Egitto nè Giordania hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Israele. L'Autorità palestinese è al collasso, la sua leadership screditata. I tentativi di internazionalizzare il conflitto sono finora falliti. Il prezzo politico, economico e umano pagato da Israele è indubbiamente alto ma a quale costo per i palestinesi? L'economia è distrutta, la gente vive da mesi sotto coprifuoco, le città palestinesi sono state rioccupate. E sotto il velo d'unità della rivolta si nasconde il rischio di anarchia.
Nell'estate del 2000, il Governo d'Israele propose ai palestinesi un compromesso fondato sull'unica realistica soluzione al conflitto: la spartizione. Israele offrì il massimo delle concessioni che potesse fare. I palestinesi hanno risposto con la violenza. Eppure la storia avrebbe dovuto suggerire un ben diverso corso. Nel 1937, 1948, 1967, e 1979 venne offerta la spartizione, ma la leadership palestinese la rifiutò, preferendo, come nel 2000, la strada della violenza. Ogni volta il risultato fu lo stesso: inenarrabili sofferenze per i palestinesi e un'altra occasione persa. L'intransigenza è il leit-motiv della storia palestinese e la sua più grande tragedia. La ragione? L'illusione di poter ottenere domani quanto oggi è irraggiungibile. Arafat non fa eccezione: di fronte alla scelta tra guerra e pace, tra le passate glorie rivoluzionarie o un prosaico futuro di indipendenza, Arafat scelse di nascondere al pubblico il prezzo della pace. Ritornato dai negoziati a mani vuote, non seppe trasformarsi da leader della rivoluzione a statista, preferendo confondere la distinzione e giocare entrambi i ruoli in un cocktail disastroso di ambiguità, promesse non mantenute e accordi non rispettati. All'esplodere della rivolta, Arafat rimase prigioniero delle sue contraddizioni: la violenza poteva essere sfruttata a suo vantaggio, come strumento di estorsione di maggiori concessioni israeliane, mentre il negoziato poteva continuare grazie al sostegno arabo, alle pressioni occidentali e alle sue verbose condanne del terrorismo.
Convinto che il fuoco, e non la diplomazia, avrebbe restituito ai palestinesi la libertà, Arafat scelse di dar via libera al terrorismo. Invece che maggiori concessioni, è venuta la risposta israeliana, in una graduale escalation che ha reso per Arafat sempre più caro il prezzo del ritorno all'ordine, e il gioco al rilancio ha reso la sua posizione sostenibile solo attraverso il ritorno alla vecchia retorica bellicosa di un tempo. Con l'elezione di Sharon si sono interrotti i negoziati, si sono ridotti i margini di compromesso, è svanito il sostegno del pubblico israeliano al progetto di pace offerto nel 2000, gli americani hanno perso la pazienza e i leader arabi, imbarazzati, hanno offerto soprattutto parole, ma pochi fatti.
Quel fuoco di rivolta che doveva forgiare la rinascita palestinese, sta invece divorando la Palestina, la sua società sull'orlo dell'anarchia, i suoi leader corrotti e inetti, le sue speranze tradite, la sua gioventù bruciata in un'orgia nichilista di sangue, le sue aspirazioni politiche più irraggiungibili che mai. Col ritorno del sogno di una Grande Palestina nell'immaginario collettivo palestinese, è svanita l'ultima speranza di compromesso. Per quanto sfuggente, il sogno funge ancora da potente catalizzatore per la violenza, specialmente di fronte a quanto era stato offerto: una Palestina dimezzata, diversa dalle speranze irresponsabilmente alimentate per tre generazioni da una leadership troppo legata ai fantasmi del passato. L'Intifada ha offerto una fuga dalla dura realtà. Ma il vittimismo che i palestinesi esprimono oggi nella loro distorta visione della storia e del presente non è un sostituto per la libertà. E i palestinesi sono le principali vittime in questo conflitto: dei loro leader e della loro incapacità di preferire le opportunità del presente alle illusioni di sempre.
Dopo trenta mesi di Intifada, il pubblico israeliano ben comprende che non esiste una soluzione militare al conflitto. I palestinesi sono invece ancora convinti che la lotta armata porterà loro quei risultati che i negoziati gli hanno finora negato. Si sbagliano. Quando nel 1937 fu presentato il primo progetto di spartizione, ai palestinesi fu offerto l'80% della Palestina mandataria. Settant'anni di conflitto li hanno lasciati con un 22% su cui contrattare. Quanto rimarrà dell'illusione della Grande Palestina al prossimo negoziato? E' giunto il momento di deporre le armi e capire quanto futile e quanto tragica sia stata l'Intifada. Solo un compromesso pragmatico potrà salvare i palestinesi dal loro attuale stato. Prima che sia troppo tardi.
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