Veniva da Mariupol
Natascha Wodin
Traduzione dal tedesco di Marco Federici Solari e Anna Ruchat
L’Orma
euro 21,00
“…Quella nuova lingua diventa la corda sicura e resistente a cui mi aggrappo per saltare dall’altra parte, per atterrare nel mondo tedesco. E’ per me ancora irraggiungibile, eppure ormai so che mi aspetta, che un giorno ne farò parte”
Mariupol, città dell'Ucraina sudorientale nella regione della Priazovia, situata nell'oblast' di Donec'k, è assurta agli onori della cronaca dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio scorso e il suo nome che fino a qualche anno fa sarebbe stato quasi sconosciuto a molti è ora associato alle tremende immagini di bombardamenti e distruzioni che ci arrivano quotidianamente dalle zone di guerra.
“Veniva da Mariupol”, il libro di Natascha Wodin pubblicato dalla casa editrice L’Orma nel 2018 un po’ in sordina, ha suscitato in questi mesi un rinnovato interesse di pubblico e di critica. Nata in Baviera nel 1945 da genitori russo-ucraini deportati in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale come lavoratori coatti, l’autrice ha trascorso una infanzia segnata dalla povertà, dall’emarginazione e dalla difficile integrazione nell’ambiente scolastico tedesco, prima in un campo di sfollati e poi in un complesso di abitazioni denominato in modo dispregiativo “Le Case”.
“Veniva da Mariupol” è insieme autobiografia, memoir, saga familiare ma soprattutto è il racconto intimo della ricerca, iniziata quasi per caso, sulle origini familiari della madre che, all’età di 36 anni, dopo aver attraversato due dittature, quella di Stalin e quella di Hitler, ha posto fine alla sua vita gettandosi nel fiume Regnitz.
Chi è Evgenjia Jakolevna Ivascenko? Della madre Natascha ha poche notizie tutte riconducibili alla sua esperienza diretta: una donna di poche parole, incapace di esprimere sentimenti, distaccata dal mondo e pervasa da un male oscuro che piano piano apre una voragine nella sua mente. Sa che viene da Mariupol, che insieme al marito è stata deportata in Germania e costretta ai lavori forzati in una fabbrica di armi del gruppo Flick nella città di Lipsia e che dopo undici anni dalla fine della guerra è morta suicida.
Natascha conserva pochi ricordi, qualche foto, il certificato di matrimonio, il permesso di lavoro e un’antica icona, dipinta a mano, che Evgenjia non aveva mai abbandonato durante le sue peregrinazioni. Per il resto la vita della madre è un buco nero.
L’unico ricordo nitido che emerge dalle brume del passato è quello delle parole della madre a proposito di una sua amica ebrea. “Anche a Mariupol i nazisti davano la caccia agli ebrei; in soli due giorni, ne vennero fucilati 8mila. La persecuzione, che poi culminò nel massacro di Babij Jar, imperversava ovunque nell’Ucraina densamente popolata di ebrei”. Anche l’amica della madre viene catturata e costretta a scavare un fossato, in attesa di essere fucilata. Si salva miracolosamente nascondendosi sotto una montagna di cadaveri per poi presentarsi grondante di sangue alla porta di Evgenjia.
Nonostante il desiderio di conoscere il passato della sua famiglia l’autrice si scontra con i vuoti della Storia, la mancanza di riferimenti e di notizie precise e con la consapevolezza che se i sopravvissuti alla Shoah avevano lasciato varie testimonianze, nulla trapelava del vissuto dei lavoratori coatti.
E’ quasi per gioco che nel corso di un soggiorno sul lago di Schaalsee, un luogo magico che la penna di Wodin ci restituisce in pagine di pura poesia, si imbatte nel sito di Azov’s Greek, dedicato alla diaspora greca in Ucraina e che dispone di una pagina riservata alla ricerca di familiari.
Dopo alcuni giorni durante i quali Wodin non si fa alcuna illusione la risposta che arriva è un’autentica sorpresa: la madre è effettivamente nata a Mariupol nel 1920 e Konstantin, un ucraino di origini greche che opera sul sito Azov’s Greek, si offre di supportarla nella ricerca delle origini della sua famiglia, un’attività quella di riannodare fili spezzati che lo appassiona molto e che per Natascha rappresenta un incentivo a proseguire nella ricostruzione del mosaico familiare.
Un tassello alla volta l’autrice scopre l’origine italiana dei bisnonni, Giuseppe De Martino approdato a Maiupol con una nave mercantile e Teresa Pacelli, figlia di un ricco commerciante, e dei loro figli fra cui Matilda, la nonna, che in una fotografia “indossa un abito grigio col colletto di pizzo, un portamento eretto, nel volto l’orgoglio delle persone umiliate e offese”. Del passato nobile della famiglia, poi falciata dalla Rivoluzione d’Ottobre, Evgenjia non ha mai fatto parola con la figlia. Dalla fitta corrispondenza che Natascha intrattiene con Konstantin emerge il ritratto di una famiglia di aristocratici filo-bolscevichi, cantanti lirici, partigiani filo-zaristi e donne determinate a studiare e a emanciparsi dal ruolo tradizionalmente riservato a loro di moglie e di madre.
Grazie alla perseveranza di Konstantin Natascha scopre il nome dei figli di nonna Matilda e nonno Yakov: Evgenjia, la madre, Sergej, cantante lirico vicino al partito comunista e Lidija, una donna volitiva impegnata negli studi che avendo osato opporsi alla dittatura di Stalin viene punita con il confino a Medvezja Gora. Il ritrovamento fortuito dei diari di Lidija scritti all’età di ottant’anni, da cui l’autrice attinge per ricostruire i dettagli della vita della zia, è la parte più intensa e avvincente del libro.
Attraverso Kirill Zimov, nipote di Lidija, un uomo con turbe psichiche che si è reso responsabile di un grave crimine, Natascha entra in contatto con il cugino Igor, uno dei figli di Lidija, che vive nella città siberiana di Miass e da quel momento intrattengono frequenti conversazioni telefoniche, all’inizio un po’ impacciate poi sempre più coinvolgenti, che rappresentano per entrambi i momenti preziosi di una ritrovata unione familiare.
La guerra civile che scoppia in Russia in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre e alla presa del potere da parte dei bolscevichi disgrega la famiglia di Evgenjia ma per quella giovane donna che ha ventun’ anni quando l’8 ottobre 1941 Mariupol viene occupata dalle truppe della Wehrmacht con lo scopo dichiarato da Hitler di decimare gli slavi e creare spazio vitale per la superiore razza ariana, il peggio deve ancora arrivare: la fuga dal Paese quando nell’aprile del 1944 l’Armata rossa riconquista Odessa, l’arrivo in Germania con la segreta speranza di emigrare in America, le precarie condizioni di vita nel campo, la durezza del lavoro coatto nella fabbrica di armi (“Sul lato destro dei vestiti, all’altezza del petto, devono appuntare il distintivo “Ost”, l’abbreviazione di Ostarbeiter, lavoratore dell’Est, la più invisa delle identificazioni dopo la Stella di Davide”), le angherie dei tedeschi molti ancora nazionalsocialisti convinti e la costante emarginazione che segna anche la vita della piccola Natascha. Tutto questo contribuisce a minare il fisico e la mente di Evgenjia che pervasa dalla nostalgia per il proprio paese e dal dolore per la scomparsa della madre Matilda, di cui non ha più notizie, perde la voglia di vivere.
E’ una pagina di storia importante quella che Natascha Wodin ci racconta in questo libro straordinario ripercorrendo col piglio del detective i destini della sua famiglia. La scarsa storiografia a disposizione non deve far dimenticare tutti quegli uomini e quelle donne deportati in Germania e sfruttati dall’economia di guerra come schiavi e coloro che, sopravvissuti a un tale regime disumano, non hanno potuto tornare nei loro paesi d’origine perché l’Unione Sovietica sotto la dittatura di Stalin li avrebbe accusati di collaborazionismo col nemico e li avrebbe condannati a morte.
“Veniva da Mariupol” non è solo una folgorante saga familiare e un’autobiografia avvincente, è anche la ricostruzione dei crimini perpetrati da dittatori come Stalin e Hitler che hanno segnato la vita di milioni di persone e fra queste la madre dell’autrice.
Un libro che si legge con lentezza perché la prosa è di tale forza emotiva che occorre tempo per assorbire quanto narrato e rielaborarlo in una riflessione che aiuti a trovare chiavi di lettura per comprendere meglio la nostra contemporaneità.
In questi giorni le immagini che arrivano da Mariupol ci raccontano di una città distrutta dai bombardamenti, devastata dalle mire di conquista di un nuovo dittatore, Putin, ma l’intera comunità internazionale può e deve impegnarsi affinchè Mariupol torni ad essere
la città multiculturale dal clima mite, accogliente per ucraini, russi, greci, italiani, francesi, tedeschi, polacchi, con le colline ricoperte di vigneti, i campi di girasole a perdita d’occhio e l’azzurro del Mar d’Azov, “il mare più piatto e caldo del mondo”, quella città che Natascha Wodin ha così magistralmente descritto e ci ha insegnato ad amare.
Giorgia Greco