L'appello dei professori bolognesi antisemiti Un appello imbarazzante che richiede una condanna univoca.
Testata: Il Resto del Carlino Data: 12 marzo 2003 Pagina: 2 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «Solo di recente ho letto l'appello»
Riportiamo un articolo di Emanuele Ottolenghi, docente di storia e di politica israeliana all'Università di Oxford, pubblicato sul Resto del Carlino mercoledì 12 marzo 2003. Sullo stesso argomento cliccare su "critiche" per leggere servizi precedenti. Solo di recente ho letto l'appello dei professori bolognesi — fra i quali il prorettore, professor Walter Tega — che sollecitano ufficiali e sottufficiali israeliani a disertare. L'appello esprime giudizi talmente inequivocabili sul conflitto arabo-israeliano da meritare approfondimento. Che la lettera sia emersa agli onori delle cronache dal relativo anonimato in cui era rimasta per un anno almeno non è ragione per ignorarla: chi esprime opinioni così nette deve prendersene responsabilità non solo per il giorno di pubblicazione, ma anche per il futuro. E se ha cambiato idea, è bene che se ne dissoci pubblicamente; altrimenti, scripta manent. Qualche obiezione Mi permetto dunque di intromettermi nella polemica per sollevare qualche obiezione a colleghi di un prestigioso ateneo, da loro giustamente celebrato come «l'Università più antica d'Europa». L'antichità da lustro alle cose, si sa. Ma non garantisce lucidità di pensiero né autorevolezza d'opinione. In questo caso, l'appartenenza dei firmatari all'Università di Bologna (che non mi risulta sponsor dell'iniziativa) non aggiunge prestigio all'appello: semmai, l'appello getta un'ombra sulla qualità di alcuni docenti e, di riflesso, sull'ateneo medesimo. Il fatto che essi lo chiamino in causa — quasi a legittimare la loro posizione — richiede che l'Università, attraverso i rappresentanti istituzionali, chiarisca la natura personale e non istituzionale di quel testo. Ma questo ha a che fare con la forma, non con la sostanza della lettera, che merita di essere sconfessata non solo per quello che dice, ma anche per come lo dice. Asserzione discutibile A parte la discutibilità dell'asserzione «che il conflitto israelo-palestinese rappresenti oggi uno dei fattori più pericolosi di instabilità e di guerra nella situazione internazionale». Nulla di più opinabile: con la fine della guerra fredda la questione palestinese si è trasformata in un conflitto a bassa intensità, con rischi di conflagrazione regionale minimi. Certo, ogni morte è una tragedia. Ma qui si tratta di esprimere un giudizio sulle dimensioni e le conseguenze di un conflitto. Nel caso in questione, il giudizio di tanti 'chiarissimi' accademici risulta alquanto offuscato. Ma la gravità dei contenuti del documento firmato da Tega e colleghi non sta nell'eccessiva importanza attribuita al conflitto israelo-palestinese sullo scacchiere internazionale, ma nella breve distanza che separa il testo dal pregiudizio antisemita, nel tono apologetico che i firmatari assumono in tema di terrorismo, nell'equivalenza morale suggerita fra attacco terroristico e risposta militare, nell'atteggiamento paternalistico nei confronti dei palestinesi, incapaci (a dir dei firmatari) di altro comportamento se non quello del terrorismo suicida, nell'acritica illusione che basti che Israele «deponga le armi» perché cessi la violenza. Dicono i firmatari di considerare gli ebrei «un popolo intelligente, sensibile, forte forse più di tanti altri perché selezionato nella sofferenza, nelle persecuzioni, nelle umiliazioni...». Anche se un complimento, ogni generalizzazione di caratteri attribuibili a un gruppo etnico o religioso è sospetta. Secondo il dizionario, razzismo è attribuire a gruppi etnici delle qualità di superiorità innate che derivano da caratteristiche ereditarie. La frase sembra soddisfare i criteri della definizione suddetta. Ai lettori l'arduo compito di trarre le conclusioni. Procedono quindi, quasi a schernirsi di possibili accuse di antisemitismo, ricordando come abbiano avuto «compagni di scuola e amici ebrei», quasi che l'aver avuto compagni di scuola e amici di certe persuasioni religiose, inclinazioni politiche, appartenenze etniche o tendenze sessuali sia un antidoto automatico contro il pregiudizio. La frase, ahimé, non attenua il sospetto. Semmai lo rinforza, specie perché l'appello prosegue mettendo in guardia gli ebrei (tutti gli ebrei): quanto avviene nel conflitto israelo-palestinese sta mettendo in pericolo «la stima e l'affetto» che i firmatari, a lor dire, proverebbero per loro. Insomma, dopo essersi maldestramente giustificati da qualsiasi sospetto di pregiudizio antisemita, i firmatari procedono ad ascrivere una responsabilità collettiva a un intero gruppo di persone in base alla loro appartenenza etnica e convinzione religiosa, rendendo stima e affetto condizionali a un comportamento politico. Certo, i loro motivi sono nobili: desiderano salvare gli ebrei da loro stessi. Ma a parte che pure l'inquisizione mandava la gente al rogo per lo scopo nobile di purificarne l'anima, il paternalismo espresso in tale pia preoccupazione dischiude una profonda ostilità nei confronti di quegli ebrei che non si dissociano da Israele nel presente conflitto. Vien da chiedersi se chi sostiene Israele ma ebreo non è, meriti la stessa condanna o ne sia esente in quanto non ebreo. Il motivo della rabbia è ovviamente da trovarsi nella natura del comportamento che l'appello condanna, comportamento che i firmatari equiparano alle persecuzioni subite dal popolo ebraico (non ebreo, ma anche la grammatica si deve essere offuscata nell'appello di Tega e colleghi) in passato. L'equivalenza tra operazioni militari israeliane e persecuzioni naziste, pogrom, inquisizione e massacri vari è di fatto grossolanamente falsa. Perché allora paragona «il popolo ebreo» ai suoi passati persecutori e aguzzini? Perché il paragone serve a banalizzare la natura delle persecuzioni antiebraiche (da ultimo l'Olocausto) sminuendone la portata attraverso l'equivalenza con un conflitto che, per quanto brutale, non si avvicina neanche per isbaglio a quegli orrori. Non solo: il paragone offre giustificazione retroattiva al pregiudizio antisemita che fa da necessaria premessa ai massacri di ebrei. Paragonando le vittime ai persecutori non si fa altro che suggerire come le vittime quasi meritassero il loro destino, ché non sono meglio dei loro aguzzini, e che essendone diventati epigoni, non meritano simpatia o compassione, ma rinnovata ostilità. Corollario a tutto ciò è la visione semplicistica e tutt'altro che accademica del conflitto, come lotta impari tra oppressi e oppressori, dove le 'vittime' sono inermi e alla mercè dei loro aguzzini. Il documento esprime questa visione in due modi: nell'illusione che se Israele cessasse la lotta al terrorismo anche i palestinesi interromperebbero le azioni terroristiche, e nell'apologia di terrorismo che emerge dalla spiegazione del fenomeno come l'inevitabile conseguenza della «repressione israeliana». L'idea che i palestinesi non possano far altro che terrorismo è grossolana e frutto d'ignoranza. Grossolana (e pericolosamente vicina all'essere razzista) perché suggerendo che tutti i palestinesi sono potenzialmente terroristi tratta un intero popolo come una comunità di automi, privi di libero arbitrio e senso morale. Inizi antichi Ma gli uomini sono capaci di più di quanto la dubbia correlazione causale offerta dall'appello indichi. Per questo l'idea esprime ignoranza: non esiste movimento di liberazione al mondo che abbia fatto ricorso così sistematico di metodi terroristici contro civili come quello palestinese. E il terrorismo palestinese è cominciato ben prima della corrente fase del conflitto, ben prima del collasso dei negoziati di pace, ben prima dell'occupazione israeliana. L'estate scorsa esplose una bomba all'Università ebraica di Gerusalemme, facendo strage di studenti. Non mi risulta che un simile appello sia stato firmato a condanna di quell'attacco a un luogo da sempre simbolo di dialogo e coesistenza tra israeliani e palestinesi. Ma va notato — a beneficio di Tega e colleghi — che quell'attacco palestinese a un'oasi di tolleranza e speranza è stato il secondo nella storia dell'Università ebraica. Il convoglio attaccato Il primo avvenne nell'aprile '48, quand un convoglio disarmato di dottori e infermiere fu attaccato e massacrato da guerriglieri arabi. Allora non esistevano insediamenti, non c'era l'occupazione, non esisteva nemmeno lo stato d'Israele. Il terrorismo, vile strumento che attacca di proposito i civili, ha accompagnato la lotta palestinese contro Israele da ben prima che ci fossero quelle ragioni che Tega e colleghi adducono a comprensione del terrorismo. L'appello che hanno firmato è un documento imbarazzante. Il prestigio della più antica università d'Europa richiede una condanna univoca e dura del tentativo di appropriarsi del nome dell'ateneo per tali discutibili fini politici. Invitiamo i lettori ad inviare il proprio plauso alla redazione del Resto del Carlino. 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