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La Stampa Rassegna Stampa
10.03.2003 La condizione ebraica vista, da sempre, con sospetto
Il significato delle scritte antisemite contro Mieli sul muro della Rai di Milano.

Testata: La Stampa
Data: 10 marzo 2003
Pagina: 29
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «La voce della diffidenza»
Riportiamo un articolo di Elena Loewenthal pubblicato su La Stampa lunedì 10 marzo 2003, a commento delle scritte apparse contro Paolo Mieli sui muri della Rai di Milano.

«L´EUROPA cacciò via i miei genitori - racconta lo scrittore israeliano Amos Oz a margine del suo ultimo libro (Storia d´amore e di tenebra, che sarà tradotto da Feltrinelli), un'autobiografia sotto le spoglie di un possente romanzo -. Per fortuna, altrimenti li avrebbe uccisi. L'Europa di allora era tappezzata di cartelli: "ebrei via, andatevene in Palestina!", quelli di oggi dicono invece: "ebrei, via dalla Palestina!"». È un paradosso triste e inquietante, che però più dalla rabbia è disarmato dall'ironia. «No agli ebrei», sentenzia la pennellata color dell'oro sul muro della Rai di Milano, accanto alla solita sequenza di simboli e a un intimidatorio «raus» ingiunto al nuovo presidente, quasi che il tedesco fosse una lingua più efficace per ottenere lo scopo. Come se l'italiano non avesse anch'esso il suo indegno lessico dell'esclusione, rimasto per decenni stampato sui documenti, sulla vita e sulla morte di migliaia di persone di «razza ebraica». Paolo Mieli definisce questo episodio «un pessimo segnale», e a queste parole fanno eco i periodici sondaggi sulla presenza ebraica in Italia, che una percentuale ampiamente maggioritaria di comuni cittadini preferirebbe candidamente vedersi levata dai piedi. È difficile se non impossibile spiegare che cosa si prova nell'ispirare questa specie di rigetto, quando magari si vive in Italia da mezzo millennio, secolo più secolo meno. Alle scritte sui muri della Rai di Milano hanno risposto subito in tanti, con un tono fermo e deciso: gesto infame, frutto di una mente bacata, mano di esaltati. Così si sono espressi politici e autorità. Giuseppe Consolo, di Alleanza Nazionale, urla «con orgoglio, oggi siamo tutti ebrei». E invece no. Oggi, come in tanti altri giorni che non li si conta più, volenti o nolenti gli ebrei e gli altri sono un poco più distanti fra di loro. Questo inevitabilmente dicono quelle scritte sui muri. Esse sono, certamente, il prodotto marcio di un manipolo di nostalgici esaltati e isolati dal resto della società civile. Ma sono fors'anche lo specchio di un conformismo antico e inossidabile, per il quale la condizione ebraica è vista innanzitutto con sospetto, come qualcosa di innaturale e in fondo di superfluo. Un conformismo per il quale l'ebreo è simbolo di una perniciosa ambiguità esistenziale di cui è meglio non fidarsi, come se non fossimo tutti, ebrei e non, individui composti di diverse identità che s'accostano senza contraddirsi a vicenda: italiani ed europei, uomini e donne. Questo conformismo ha la voce della diffidenza - vuoi inconscia vuoi articolata - verso un'identità che per secoli e millenni si è trasmessa con l'apparenza di una diversità irriducibile: ma perché mai questi ebrei si ostinano a restare tali, quando non costerebbe loro nulla diventare come gli altri? Invece del confronto, «raus» è una risposta indubbiamente più comoda.
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