Iran: le parole nuove della rivolta Cronaca di Gabriella Colarusso
Testata: La Repubblica Data: 22 ottobre 2022 Pagina: 25 Autore: Gabriella Colarusso Titolo: «'Donna, vita, libertà'. Le parole nuove della rivolta iraniana»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/10/2022, a pag.25, con il titolo " 'Donna, vita, libertà'. Le parole nuove della rivolta iraniana", la cronaca di Gabriella Colarusso.
Gabriella Colarusso
Ali Khamenei - le proteste delle donne iraniane
“Donna, vita, libertà”. “Da Sanadaj a Zahedan, la mia vita per l’Iran”. “Morte al dittatore”, “Disonorevoli basiji”. “Teheran è diventata una prigione ed Evin un’università”. C’è una grammatica nuova nelle proteste che da cinque settimane attraversano l’Iran, un insieme di parole, simboli e gesti che segnano una differenza con le precedenti ondate di rivolta. Nel 2018 e poi ancora nel 2019, gli slogan delle piazze erano diretti soprattutto contro la corruzione del sistema, le diseguaglianze, gli investimenti militari all’estero mentre il Paese chiedeva pane e lavoro — “Non la Siria, non il Libano,solo l’Iran” — temi che sono stati al centro anche delle manifestazioni, la scorsa primavera, contro la mancanza d’acqua e i bassi salari. La morte di Mahsa Amini ha acceso proteste che sono innanzituttopolitiche, trasversali, che uniscono classe media e working class, superando le divisioni etniche, di reddito, di genere. “Donna, vita, libertà” è uno degli slogan principali del movimento nato dalla rivolta contro i metodi brutali della cosiddetta “polizia morale” e l’hijab obbligatorio. “Jin, Jian, Azadi” - in farsi “Zan Zendeghi, Azadi” - è un canto di origini curde, come curda era Mahsa Amini, e porta con sé l’idea che la liberazione dell’Iran possa avvenire solo attraverso la liberazione delle donne. “Morte al dittatore” e “Morte a Khamenei” rovesciano la retorica tipica dei raduni governativi dove domina il vecchio slogan “Morte all’America” che era il grido di battaglia della rivoluzione islamica guidata da Khomeini nel 1979. Ma non è solo un rifiuto della teocrazia islamica, è una richiesta di democrazia contro tutti gli autoritarismi, compresa la monarchia: “Morte all’oppressore, che sia un re o un leader supremo”, è l’altra frase ripetuta nei cortei. È un movimento composto soprattutto da giovanissimi, cresciuti online e connessi col mondo esterno nonostante la censura, decentrato e senza leader, ma con un punto di riferimento: la società civile che in 40 anni si è battuta per i diritti civili e le libertà politiche. “Teheran è diventata una prigione, Evin un’università”, cantano riferendosi al carcere della capitale dove sono detenuti attivisti, intellettuali, avvocati. Il bersaglio della rabbia sono come da sempre i basiji, l’organizzazione paramilitare usata per la repressione nelle piazze che dipende dai Guardiani della Rivoluzione, ma con la rivendicazione di una forza nuova, il non avere più paura: “Cannoni, carri armati e pistole non funzioneranno più, dì a mia madre che non ha una figlia”, oppure “Non aver paura, siamo uniti”. Il sentimento di unità è l’altra grande direttrice delle proteste. L’Iran è un Paese esteso, con 80 milioni di abitanti e differenze etniche, linguistiche e culturali marcate, attraversato anche da sentimenti separatisti. “Da Sanadaj a Zahedan, la mia vita per l’Iran” scandiscono i manifestanti, un appello all’unità che parla ai curdi iraniani del Nord, da sempre un bastione di opposizione alla Repubblica Islamica e quelli che più pagano la repressione violenta, ma anche ai beluci iraniani del Sud, gli abitanti di una delle regioni più povere del Paese che anche ieri sono tornati in piazza. A Zahedan, il 30 settembre, c’è stato l’episodio più sanguinoso delle proteste, almeno 80 vittime. “Sanadaj, Zahedan, occhi e luce dell’Iran”, cantano gli studenti di Teheran.
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