Iran: la storia della donna ottantenne che sfida gli ayatollah Cronaca di Gabriella Colarusso
Testata: La Repubblica Data: 20 ottobre 2022 Pagina: 21 Autore: Gabriella Colarusso Titolo: «Gouhar, nonna-coraggio. Via il velo a ottant’anni per sfidare gli ayatollah»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/10/2022, a pag.21, con il titolo "Gouhar, nonna-coraggio. Via il velo a ottant’anni per sfidare gli ayatollah", la cronaca di Gabriella Colarusso.
Gabriella Colarusso
Ali Khamenei - le proteste delle donne iraniane
Gouhar Eshghi ha indossato l’hijab per tutta la vita, da quando aveva 7 anni: ben prima che il precetto venisse imposto dalla Repubblica Islamica. Gouhar Eshghi è credente, da sempre. Ma due giorni fa si è seduta sul tappeto del soggiorno spoglio di casa sua, con la foto del figlio Sattar tra le mani, e si è tolta il velo, lasciando i lunghi capelli grigi correre sulla veste nera. «Per i nostri giovani, a 80 anni mi tolgo il mio hijab, a causa vostra che uccidete in nome della religione. Maledico i codardi. Se mi ascoltate, scendete nelle strade, codardo chi non lo fa», dice in un appello a manifestare che ha emozionato tanti iraniani, sottoposti nelle ultime settimane a una repressione con almeno 220 morti e migliaia di arresti. La nonna coraggio è in realtà una delle più note e fiere oppositrici di Khamenei, madre di Sattar Beheshti, un blogger che nei primi anni 2010 ottenne un seguito significativo con la sua pagina "La mia vita per il mio Iran" in cui criticava il regime, denunciando gli abusi e le torture sui detenuti, le censure, le minacce, la corruzione. Sattar lavorava in un negozio a Robat Karim, uno dei sobborghi più poveri di Teheran, e finì nei guai dopo aver scritto un post in cui attaccava il sostegno finanziario dell’Iran al movimento libanese Hezbollah, una linea rossa da non valicare per le autorità iraniane, che sulla rete di milizie regionali pro-Teheran — dal Libano all’Iraq alla Siria — hanno costruito consenso, influenza e potere. Beheshti fu arrestato, torturato — secondo le testimonianze dei detenuti, le prove raccolte da attivisti e Ong e la denuncia della famiglia — e morì in custodia della polizia.
Gouhar Eshghi
«Stai zitto. Non ha nulla a che fare con te», fu l’unica risposta data allo zio che chiedeva spiegazioni sulla morte del ragazzo. Il giorno del funerale, Gouhar Eshghi riuscì solo a dire che il sudario in cui Sattar era avvolto quando fu sepolto era pieno di sangue. Ma i mesi che seguirono hanno trasformato la casalinga di Nishapour, nel Nord-Est dell’Iran, che non aveva avuto potuto studiare e si era spaccata la schiena come donna delle pulizie per crescere quattro figli, in una dei volti più conosciuti dell’attivismo femminile in Iran. Da quel 2012 Eshghi continua a indossare il nero del lutto, ma non è stata vinta: sit-in in strada, video di denuncia, anche una fondazione intitolata a Sattar per chiedere giustizia e un processo equo e trasparente. Sempre con la foto di suo figlio tra le mani. I servizi le offrirono anche un accordo finanziario per tacere. Lei denunciò pubblicamente: «Mi hanno detto che avrebbero arrestato anche mia figlia», Sahar, «sono stata costretta. Non potevo accettare un’altra perdita. Ma il mio silenzio non è in vendita». Quando nel 2014 un tribunale iraniano condannò a tre anni di carcere l’ufficiale di polizia Akbar Taghizadeh per la morte del figlio, lei rifiutò la sentenza: non era "omicidio colposo", disse, ma "premeditato". E l’anno scorso hainvitato con un video gli iraniani a non votare alle elezioni presidenziali, per non legittimare un «regime che opprim e». Negli anni il salotto spoglio e umile di casa Eshghi è diventato una specie di circolo carbonaro, ritrovo di attivisti sociali e politici. Ma in tutti i sit-in solitari, per strada o sulla tomba di suo figlio, nei video registrati da sola o con la figlia Sahar, la signora Eshghi non si era mai tolta il velo, un gesto di appartenenza e di fede. L’ha fatto due giorni fa, scoprendosi i capelli, per sostenere le donne iraniane contro «quelli», dice, «che uccidono in nome della religione».
Per inviare la propria opinione a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante